Come ha osservato di recente Enzo Collotti, la storiografia internazionale continua ancora oggi a non considerare con la dovuta attenzione l’impatto e la specificità della persecuzione antiebraica fascista, vista spesso come una versione più blanda di quella messa in atto dal nazismo e valutata quindi “marginale” rispetto ad altre esperienze[1]. Del resto, aggiunge sempre Collotti, questa tendenza interpretativa ha risentito del ritardo con cui la stessa storiografia italiana ha saputo produrre negli anni studi e ricerche che mettessero in crisi la visione defeliciana dell’antisemitismo fascista all’“acqua di rose”, elemento centrale nell’immagine tanto diffusa degli Italiani brava gente. Tuttavia, si può affermare che, a partire dagli anni Ottanta, il dibattito storiografico italiano si è progressivamente allontanato dall’interpretazione dell’antisemitismo fascista come corpo estraneo all’Italia (imposto dai nazisti e conseguenza dell’alleanza con la Germania di Hitler), per arrivare, oggi, a una maggiore consapevolezza della responsabilità effettiva del regime mussoliniano nella persecuzione degli ebrei, nonché al riconoscimento di una specificità propria del razzismo e dell’antisemitismo fascista. Mettendo in evidenza le attente e meticolose pratiche persecutorie delle autorità italiane e il coinvolgimento attivo o “passivo” della società civile, le più recenti ricerche hanno quindi contribuito a criticare l’immagine del Bravo italiano, facendo cadere quel paradigma del dibattito pubblico e politico dell’Italia antifascista nell’immediato dopoguerra che tendeva ad attribuire tutte le colpe della guerra a Mussolini e ai fascisti e scagionava dalle responsabilità la gran parte del popolo italiano, considerato contrario al regime[2].Il contributo di Marino Ruzzenenti, professore a Brescia e già autore di ricerche sulla politica antiebraica in quella provincia[3], si inserisce dunque in questa rinnovata tendenza interpretativa e si propone di sfatare proprio il mito degli Italiani brava gente nella Shoah. Ruzzenenti analizza in maniera critica quelli che definisce due “pilastri” alla base di questo mito: la presunta innocenza del cattolicesimo in Italia, che viene generalmente spiegata con la distinzione tra il tradizionale antigiudaismo cristiano e l’antisemitismo razziale; e il marginale coinvolgimento del fascismo italiano nella persecuzione, se non sotto costrizione tedesca (p. 81). Il libro risulta quindi composto da due parti distinte ma allo stesso tempo collegate nel loro fine ultimo, ovvero porre l’attenzione sulle responsabilità degli italiani nel contesto della politica antisemita culminata con la promulgazione delle leggi razziali e la cosiddetta “persecuzione delle vite”[4] nella Repubblica sociale italiana.Nella prima parte del libro, l’a. si sofferma sulla posizione degli ambienti cattolici bresciani nella gestazione della legislazione razziale e lo fa attraverso la figura di Mario Bendiscioli. Intellettuale di spicco nella provincia e non solo, fu fondatore e collaboratore della casa editrice Morcelliana: nata nel 1925 per l’iniziativa di un gruppo di laici e sacerdoti, come Giovan Battista Montini, il futuro Paolo VI, fu presentata nel dopoguerra come realtà antifascista e distaccata dal regime. Bendiscioli, in particolare, fu responsabile della pubblicazione di testi in ambito storico e filosofico, tra i quali risultano opere di contenuto antiebraico. Seppur sotto pseudonimo, sempre Bendiscioli curò anche la traduzione del libro Gli ebrei di Hillaire Belloc (1922), pubblicato nel 1934 per la rivista cattolica “Vita e Pensiero”. In quest’opera, partendo dal presupposto che gli ebrei non erano assimilabili nella civiltà europea, Belloc invitava gli Stati a prendere provvedimenti legislativi che decretassero una loro discriminazione: le sue riflessioni erano infarcite di stereotipi antiebraici classici e comunemente diffusi.
Rileggendo in chiave critica la scelta di pubblicare determinati titoli, nonché i contenuti di questi libri, l’a. ricostruisce così la posizione di Bendiscioli e della sua casa editrice riguardo il tema dell’antisemitismo. Il tutto viene inserito all’interno del contesto culturale della provincia bresciana di quel periodo, considerato un terreno fertile per tendenze antisemite in ambito religioso, sebbene in una versione spiritualistica e non razzista. È proprio questo il punto centrale dell’analisi di Ruzzenenti, per il quale Bendiscioli condivise l’atteggiamento che la Chiesa cattolica adottò di fronte all’emergere dell’antisemitismo di Stato e di fronte all’affermazione della Germania nazista. L’a. ci mostra come da una parte, conseguenza di un tradizionale antigiudaismo di stampo religioso, questa sembrò sostenere i regimi autoritari europei nel loro intento di limitare il processo di emancipazione degli ebrei in atto dalla fine dell’Ottocento, tanto da non esprimersi, ad esempio, in maniera critica, neanche riguardo le leggi del ’38 in Italia se non per quanto riguarda i matrimoni misti. Dall’altra, invece, fu ben attenta ad evitare che le prerogative religiose di sua competenza non passassero nelle mani di questi stessi regimi: da qui la scelta ad esempio di schierarsi nettamente contro le derive neopagane del razzismo nazista. Un simile atteggiamento si riflette anche in Bendiscioli e nell’ambiente cattolico bresciano. La sostanziale approvazione delle leggi del ’38 che stabilivano una forma di “segregazione amichevole” degli ebrei conviveva quindi con una posizione chiaramente antinazista. Secondo l’a., la coesistenza di queste due anime a prima vista in contraddizione dimostra in realtà che, al contrario di quello che afferma la storiografia cattolica, non sia così netta la differenza tra l’antigiudaismo tradizionale religioso e l’antisemitismo razzista, quanto siano piuttosto evidenti elementi di continuità. Tuttavia, per evitare ogni equivoco, conclude: «non vi è alcun dubbio che la soluzione auspicata del “problema ebraico” per i cattolici non dovesse in alcun modo travalicare i limiti di una sorta di apartheid o di una forma moderna del ghetto medievale, giuridicamente definita, e riparatoria del “vulnus” dell’emancipazione di inizi Ottocento» (p. 67). La seconda parte del libro affronta il delicato tema della partecipazione delle autorità di Salò alla persecuzione, l’arresto e la deportazione degli ebrei nella provincia bresciana dopo l’8 settembre 1943. Nell’approcciare alla vicenda, l’a. parte con un breve accenno alla storia degli ebrei in quel territorio fin dall’epoca moderna, per arrivare poi al periodo in questione e dimostrare che la presenza ebraica nella provincia è sempre stata marginale. Anche durante il fascismo abitavano nella regione pochi ebrei per lo più appartenenti a buone famiglie e comunque perfettamente integrati all’interno della vita politica e sociale del regime. Come ulteriore testimonianza, Ruzzenenti cita una significativa relazione del questore di Brescia del settembre 1938 nella quale definisce “inesistente” la questione ebraica in quella provincia. Questa caratteristica porta l’a. ad affermare che le responsabilità successive del fascismo nella persecuzione siano quindi ancora maggiori, in quanto le autorità si accanirono contro poche persone, che per di più non recavano alcun disturbo o problema di ordine pubblico (p. 86). Con le leggi razziali del ’38, infatti, gli ebrei dimostrarono un forte senso di legalità presentandosi alle questure per auto-denunciarsi. Molti comuni della provincia comunicarono al Ministero che non vi erano in realtà presenti cittadini di razza ebraica, ma ciò nonostante le autorità applicarono attentamente i provvedimenti discriminatori laddove si trovassero i pochi ebrei. Con lo scoppio della guerra, a seguito delle misure di sicurezza prese dal governo nei confronti degli ebrei italiani e stranieri nella penisola (internamento libero, campi di concentramento, avvio al lavoro), in provincia di Brescia furono create località di internamento per stranieri, mentre una decina di italiani furono avviati al lavoro obbligatorio (1942). Secondo l’a., dunque, questa politica illuse in qualche modo gli ebrei che in Italia non si sarebbe arrivati alla soluzione finale nazista, anche quando, pochi mesi dopo, la RSI prese provvedimenti più radicali – invio di tutti gli ebrei in campo di concentramento, senza distinzioni di nazionalità (p. 101). A questo punto l’analisi entra nel vivo attraverso la ricostruzione dettagliata delle fasi che portarono alla cattura e alla deportazione degli ebrei presenti nella provincia bresciana. L’a. punta molto l’attenzione sulla collaborazione tra autorità italiane e tedesche, accomunate dallo stesso obiettivo: la soluzione finale della questione ebraica. Attraverso un’efficace selezione delle carte di prefettura e questura custodite nel locale Archivio di Stato, Ruzzenenti porta così al lettore la prova della convinta partecipazione degli uomini di Salò alla persecuzione e condivide la teoria avanzata da Michele Sarfatti riguardo un accordo “segreto” tra RSI e forze di occupazione naziste per la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio dell’Europa orientale[5]. La consegna al comando germanico nell’autunno del ’43 degli elenchi degli ebrei censiti negli anni precedenti da parte delle autorità di Salò induce così l’a. ad affermare che gli italiani fossero d’accordo con i tedeschi riguardo lo sterminio, di cui erano sicuramente a conoscenza in quel periodo (cosa ancor più evidente a Brescia, la capitale della RSI). Del resto, contestualmente agli arresti, le autorità locali si adoperarono con meticolosità per appropriarsi dei beni appartenenti alle persone fermate o fuggite alla persecuzione. Questo dimostra, secondo l’a., come fosse chiara la volontà di eliminare definitivamente gli ebrei dalla società italiana: solo immaginandone una scomparsa fisica si sarebbe potuto infatti procedere alla confisca di tutti i loro beni mobili e immobili (p. 121). Le dinamiche concernenti il sequestro dei beni ebraici e gli arresti sono descritte molto bene nel testo, grazie soprattutto alla citazione di alcuni esempi individuali ricostruiti attraverso le fonti d’archivio locale: spicca in questo contesto la vicenda della famiglia Dalla Volta, della quale faceva parte Alberto, l’amico di Primo Levi al campo di Auschwitz, protagonista in Se questo è un uomo. Emerge in particolare l’atteggiamento rigoroso e spietato di alcuni personaggi: non solo Erich Priebke, che svolse per qualche mese le sue funzioni anche in quella regione, ma soprattutto il questore Candrilli, il quale non esita a dare seguito in maniera puntuale ai provvedimenti antiebraici e dimostra un particolare accanimento contro i singoli individui ricercati e arrestati (paradossalmente, osserva l’a., questo personaggio finirà tra le “vittime” delle violenze partigiane del dopoguerra citate da Pansa). L’esempio del questore Candrilli, dunque, mette bene in evidenza quelle che furono in questo caso le responsabilità delle autorità italiane, non costrette obtorto collo dall’occupante tedesco a perseguitare gli ebrei, bensì zelanti esecutori di ordini impartiti dal loro stesso governo. Al pari di altri contributi locali pubblicati di recente[6], questo libro costituisce un passo in avanti nella conoscenza di quello che accadde in effetti nelle singole città e nei singoli comuni a seguito della promulgazione delle misure antiebraiche, sia nel 1938 che durante la RSI. La consultazione di fonti d’archivio locali contribuisce in questo caso a mostrare con chiarezza proprio le dinamiche che interessarono la macchina amministrativa periferica, spesso e volentieri solerte nel trasformare in pratica gli ordini ricevuti dall’alto, e la società civile del luogo (si pensi al coinvolgimento dei principali istituti bancari nel meccanismo di confisca dei beni ebraici). Un appunto che si può fare al contributo di Ruzzenenti è forse quello di voler insistere eccessivamente sulla contrapposizione etica tra “buoni e cattivi”, come del resto già il titolo fa sottintendere. Non si vuole qui mettere in dubbio le responsabilità e le colpe degli italiani durante il fascismo. Tuttavia, il fatto che il lavoro sia particolarmente orientato sul dimostrare la “colpevolezza” delle autorità e delle istituzioni italiane rischia a volte di far perdere di vista alcuni aspetti peculiari e significativi del caso di Brescia, ovvero quella che ci sembra sia la varietà di comportamenti collettivi e individuali dei protagonisti della vicenda, sia tra i persecutori che tra le vittime. In riferimento alla seconda parte del testo, ad esempio, da quel che emerge dalla ricerca di Ruzzenenti, gli uomini di Salò, posti di fronte all’applicazione delle misure di arresto o all’eventuale richiesta di scarcerazione di singoli ebrei finiti nelle mani della polizia di sicurezza germanica, si comportarono in maniera differente in occasioni a prima vista simili tra loro: la scelta di liberare o consegnare ai nazisti un individuo poteva dipendere così da fattori quali il rapporto personale che l’arrestato aveva con l’autorità competente, oppure dalle tensioni tra l’amministrazione italiana e l’alleato tedesco. Insomma sfumature della vicenda che sembrano indicare piuttosto come sia difficile definire in modo netto quello che realmente è stato l’atteggiamento quotidiano e ordinario di “uomini comuni” nel processo che portò alla deportazione di migliaia di persone innocenti. [1] E. Collotti, Introduzione, in Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI: persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), a cura di E. Collotti, vol. I Saggi, Carocci, Roma 2007, p. 10 [2] F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano: la costruzione della memoria del fascismo e della seconda guerra mondiale in Italia, Rinoceronte, Padova 2005; A. Del Boca, Italiani brava gente?: un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2005; D. Bidussa, Il mito del Bravo Italiano, Il Saggiatore, Milano 1994. [3] M. Ruzzenenti, La capitale della RSI e la Shoah: la persecuzione degli ebrei nel Bresciano (1938-1945), GAM, Brescia 2005. [4] Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in Storia d’Italia, Annali, 11, Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1627-1764; Id., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007. [5] M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 284-295. [6] F. Selmin, Nessun “giusto” per Eva. La Shoah a Padova e nel padovano, Cierre, Verona 2011; Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI: persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), a cura di E. Collotti, vol. I, Carocci, Roma 2007; L. Boscherini, La persecuzione degli ebrei a Perugia. Ottobre 1943-luglio 1944, Le Balze, Montepulciano 2005. |
La nuova talpa
Manifestolibri, Roma
2011
Brossura
199
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