Lavoro senza padroni è un titolo, di per sé, importante. E lo è perché lo sono le parole. In un’epoca storica in cui, non solo in Italia, il lavoro è sempre più merce di scambio e non significante portatore di etica, un libro di questo tipo acquista una valenza ancora più pesante. Le storie di persone, di lavoratori che hanno preso possesso di aziende destinate alla chiusura, assumono la forza di una contrapposizione anche linguistica. Nel nostro paese, solo per dare un contesto più immediatamente riconoscibile, si scimmiotta spesso la filosofia americaneggiante del “diventiamo imprenditori di noi stessi”, “avviamo una start up”. Tutte formule linguistiche che, inevitabilmente, sembrano contenere un giudizio di valore. Portando con sé, come conseguenza, quell’irruenza arrogante che ha preso il nome di rottamazione. Si vuole rottamare tutto, cose, persone, idee. Come se il vecchio, portatore di un valore e di un significato, fosse qualcosa rispetto a cui compiere per forza uno strappo.
Ma quando si esce da questa logica perversa allora si capisce che ci sono i singoli, le persone, i lavoratori. Con le loro storie e la loro esperienza. Questo libro è un po’ questo: la restituzione della forza del lavoro attraverso il racconto di chi, il lavoro, non lo ha voluto perdere sottostando alla globalizzazione. Che è nelle parole e nelle mentalità prima ancora di essere un modus operandi. “Lavoro senza padroni” è un insieme di bellissime storie di “resistenza operaia”. Di lavoratori che hanno, in vari modi, rilevato l’azienda per cui lavoravano, destinata a chiudere, facendone ripartire la produzione. Un cambio di paradigma presente in Sud America, in Europa ma anche in Italia. Un fenomeno di cui si parla ancora troppo poco. Relegato, come rischia di essere, in qualcosa di sporadico. Perché è una minaccia, non c’è che dire, a quel capitalismo selvaggio che, in nome del solo profitto, sa cancellare in un istante, un’intera storia di persone e aziende.
La potenza del testo, a mio avviso, risiede proprio nell’aver ridato centralità alle persone. Se ripeto questo concetto è proprio perché è questo il fulcro, non solo del libro, ma di ciò che nel libro si racconta. Allora “Lavoro senza padroni” diviene un altro progetto economico, un’alternativa possibile. E non solo, alle orecchie di qualcuno, slogan vetero operaio. Angelo Mastrandrea, l’autore, è stato capace di fare la cosa più importante: far parlare le storie, non le opinioni. Un reportage carico di forza proprio perché totalmente privo di retorica. Nella quarta di copertina viene definito “romanzo operaio” quasi a metterne in luce la portata anche narrativa e letteraria. E così è. Perché le più grandi rivoluzioni forse è vero che nascono, prima di tutto, dalle parole.
In 175 pagine l’autore ci accompagna dentro la storia di alcune fabbriche recuperate, in Italia, in Europa e in Sud America. Quello delle cosidette “empresas recuperada” è un fenomeno conosciuto soprattutto dal Sud America. Nasce in Argentina nel 2001 con la storia della Zanon, fabbrica di ceramiche nella lontana Patagonia. Una gestione scriteriata, attenta più ai vantaggi politici, si intreccia con il fallimento dell’intero paese. Ma gli operai non ci stanno. Si prendono la fabbrica e, con una gestione operaia, la fanno ripartire. E con essa riparte la loro dignità e la loro sapienza lavorativa. Perché di questo si sta parlando. Le fabbriche recuperate divengono teatro non solo di un recupero economico e produttivo ma, forse soprattutto, di un recupero di cultura politica, sindacale e lavorativa. E questo è l’elemento probabilmente più importante di tutto il libro: far comprendere come queste “lotte” siano l’approdo di un lungo percorso sistemico in cui politica e lavoro non possono andare disgiunte. Un certo tipo di politica e un certo tipo di lavoro.
Parlare di un certo tipo di politica non è casuale. Innegabile vi sia un filo rosso nella cultura politica che porta a questi risultati. Si può, forse schematicamente, parlare di socialismo. Anche se la cultura politica di cui si parla nel libro sembra avere qualcosa di più, che si chiama lungimiranza e solidarietà. Infatti le fabbriche recuperate di cui ci racconta, rinascono proprio grazie ad un sistema di valori che si contrappone all’assenza di valori della globalizzazione e del capitalismo ad essa connaturato. La dove molti dirigenti hanno cercato di adottare il “dividi et impera” offrendo oboli di buonuscita per far desistere, gli operai hanno risposto con un disegno più ampio che solo la consapevolezza della necessaria unità di intenti può creare.
Ma parlare di una certa politica significa anche riconoscerne una sorta di trasversalità. In Italia, per esempio, fu un politico democristiano a dar vita ad una legge ad hoc per le aziende fallite. Marcora, ex ministro dell’industria, con la legge che prese il suo nome, mise sul campo tutta una serie di contributi a quelle cooperative costituite da operai in cassa integrazione, dipendenti di imprese fallite o licenziati per interruzione di attività produttiva, che si riprendevano in mano le loro fabbriche. Si tratta di una legge, tuttora in vigore, che prevede un fondo utilizzabile per erogare prestiti a tassi agevolati per riconvertire le strutture industriali. Un importante mattone nato dalla cultura politica di un democristiano ex partigiano. Non si tratta di ideologia. Ma solo di riconoscere un sistema di valori e di pensiero che arriva da una lotta agli antipodi dell’individualismo. Individualismo di cui la globalizzazione ha un gran bisogno. Non a caso la globalizzazione e le distorsioni economico-finanziarie che ne conseguono portano chiusure, delocalizzazioni e parcellizzazione.
E socialista è anche la Legge Florange introdotta da Hollande. Legge che – citiamo testualmente dal libro – “prevede anche la possibilità per i dipendenti di acquistare fino al 30% delle quote e l’obbligo per gli imprenditori di aziende con più di mille dipendenti di cercare un acquirente prima di spostare la produzione fuori dalla Francia, pena una multa e l’obbligo di restituire gli aiuti di Stato percepiti negli ultimi due anni”. Perché le regole ci vogliono eccome.
Ecco allora, con il ritmo e la capacità evocativa di un romanzo, un vero reportage che ci guida dentro la storia di fabbriche e operai francesi, greci, turchi, italiani. Di operai che oggi si contrappongono, solo per citare due esempi, a multinazionali come la Lipton o ai colossi della farmaceutica, pronti a chiudere baracca e burattini insieme a vite vere. Un libro che andrebbe letto e discusso perché le storie di cui ci regala testimonianza non sono utopia. Anzi. Nella loro concretezza possono rappresentare piccole grandi crepe nel sistema attuale. Riappropriarsi non solo del tempo del lavoro ma degli strumenti di lavoro è davvero un altro paradigma.
I Saggi
Baldini&Castoldi Editore
Ottobre 2015
175