Cosa determina l’identità di una nazione? Domanda difficile e semplice nello stesso tempo. La parola “margini” contiene in sé già un giudizio di valore. Guardare i margini, definirli tali, presuppone uno sguardo che, inevitabilmente, si colloca al centro. David Forgacs, in questo libro, mette in luce una fisiologica contraddizione del modo di raccontare della fotografia, dell’etnologia e di qualunque altra scienza si ponga l’obiettivo di un’osservazione che non è mai neutra. Lo sguardo non è e non può essere neutro là dove si prefigge, poi, di raccontare ciò che vede.
Cosa sono i margini? Quale portata ha, letteralmente e metaforicamente, questa parola? Una portata immensa che diviene politica e marginalizzante a sua volta. Il discorso pubblico, sia esso politico sia narrativo in senso lato, ha avuto bisogno sempre di una definizione di margine per cristallizzare situazioni incomprensibili. Lo ha fatto anche quando ha cercato di raccontare un disagio illudendosi di denunciarlo. Le parole e i racconti sono una sorta di gioco di potere. Da questa logica, leggendo questo testo, sembra impossibile uscire.
In questo libro l’autore prende in esame cinque macroaree, se vogliamo chiamarle così, in cui l’esclusione sociale viene ribaltata passando da rappresentazione a giudizio di valore: periferie urbane, colonie italiane, sud, manicomi e campi nomadi. Terreni impervi su cui hanno “giocato” sia coloro che volutamente hanno contribuito alla segregazione sia coloro che volevano combatterla. Disciplina principalmente messa sotto analisi, la fotografia. Un modo di raccontare e restituire che, apparentemente, si mostra scevro da giudizi e che, invece, ne resta fisiologicamente portatrice. Perché? Perché chi fotografa è in una condizione, sociale e culturale, di potere rispetto a chi viene fotografato. Non ci si relazione mai ad un livello totalmente paritario. E ciò che si fotografa diviene, dunque, per forza di cose modificato da chi fotografa.
Un libro che, non è esagerato dirlo, giunge davvero a proporre una sorta di ribaltamento prospettico non solo in ambito metodologico ma anche in ambito storiografico. Non solo nella fisica sembra dunque applicarsi il principio per cui l’osservatore impatta inevitabilmente sul fenomeno osservato. Anche le scienze sociali corrono sul sottile crinale dei giochi di potere. E qui è davvero illuminante il capitolo dedicato alle colonie italiane nel nord Africa e all’uso propagandistico della fotografia di quell’epoca. Ma il discorso non cambia neanche nel racconto per immagini delle periferie urbane o dei manicomi. L’Altro da sé viene assorbito nel sistema di valori di chi lo osserva e, spesso, strumentalizzato. Anche quando non si è consapevoli di questo meccanismo.
Dentro, fuori, centro, margine sono, per questo motivo e alla luce di questo libro, parole che diventano il substrato linguistico (o rischiano di diventarlo) di un modus operandi culturale che porta all’esclusione sociale e ad un presunto controllo o istituzionalizzazione di qualunque forma di eccentricità. Dove per eccentricità non si intende solo la malattia mentale ma anche un certo tipo di urbanistica o di sociologia. Molto evidente appare ciò nel capitolo dedicato al sud Italia. In questa parte del libro l’autore ci accompagna, per esempio, attraverso i lavori di due studiosi come De Martino e Levi. Nel loro profondamente diverso approccio risultano però entrambi invischiati nella trappola linguistica della definizione di “questione meridionale”. Un’espressione che ha contribuito, per molti aspetti, a cristallizzare elementi di cultura meridionale in una specie di monolite immutabile invece di considerarla come il prodotto dinamico di un contesto molto più vasto.
I margini dunque, la marginalità sono molto spesso più il frutto di un modo di raccontare che non una situazione oggettiva. E proprio in questa sorta di “buona fede” di chi racconta si nasconde il pericolo maggiore. Il ribaltamento metodologico suggerito da questo libro ha il merito di arrivare, a chi legge, proprio come presa di coscienza di questo pericolo. L’autore afferma infatti di non avere soluzioni ma di voler quanto meno rendere consapevoli di come le parole e le immagini non solo raccontano ma definiscono.
Qual è il passo successivo di questo? L’uso politico di ciò che viene raccontato. E qui emblematico è il bellissimo capitolo dedicato ai rom e ai campi nomadi. Se non fosse abbastanza evidente la distorsione mediatica a cui questo popolo viene sottoposto dai giornali italiani, l’autore spiega come anche un reportage fotografico si muova sul difficile e sottile crinale tra denuncia e giudizio. Bisognerebbe essere in grado di assumere quello che Franco Arminio chiama “lo sguardo del cane” cioè uno sguardo dal basso, umile, che annusa anche i marciapiedi e registra senza sovrastrutture culturali o, in alcuni casi, pseudo culturali.
Si tratta di un libro che invita a soffermarsi sui limiti e sulla forza, nello stesso momento, di immagini e parole. Se il punto di partenza di esse può essere, negli intenti, molto diverso, i risultati non riescono ad uscire totalmente dalla logica del più forte. Un’impossibilità che pare essere strutturale: l’estetica che diventa un’etica. Chiare, a tal rigurado, alcune parole dello stesso autore: “Vorrei qui soffermarmi brevemente su due obiettivi del libro. Che la costruzione delle nazioni moderne comporti l’identificazione di alcuni luoghi e gruppi di persone come marginali, rispetto ai luoghi e ai gruppi di persone che hanno una posizione di centralità, è cosa ben nota agli storici e agli studiosi di geografia culturale, anche se non sempre essi vedono la questione in questi termini.”
Cosa comporta dunque tutto ciò? Che, per raccontare qualcosa o qualcuno come marginale è necessario che qualcosa o qualcuno si ponga come centrale. Se si parte da questa considerazione diviene chiaro come anche gli strumenti del raccontare sconfinino in un perpetuarsi delle dinamiche di potere. Come si racconterebbero i margini se potessero raccontarsi da soli? È forse questa la domanda più urgente che sorge dopo la lettura di questo testo. Una domanda che, pur non pretendendo un’unica risposta, può rovesciare lo sguardo.
Lateza
2015
398