Cos’è l’identità? Una domanda attorno a cui si sono arrovellati e interrogati filosofi di ogni epoca, sociologi, antropologi. Domanda che resta difficile così come, apparentemente, semplice può sembrare la risposta che si trova. Identità è quella cosa che ci distingue dagli altri, che ci fa avvertire come anche la differenza dell’Altro sia, specularmente, identità. È quella cosa che ci fa andare in giro per il mondo e nel mondo, con un substrato di esperienze personali e storiche che fanno di noi ciò che siamo. E si potrebbe continuare. Avvicinandoci e allontanandoci da qualcosa che, pur identico e identitario, cambia.
Ma quando si parla di luoghi, le stesse risposte possono comunque valere? Oppure la parola identità entra in altri registri linguistici, in altri piani di senso? È un po’ questo ciò cui cerca di rispondere questo bel libro a cura di Stefano Pifferi, interessante miscellanea di contributi tra cui, solo per citarne alcuni, quelli di Maurizio Bianchini, Fabio Canessa, Maria Cristina Baleani, Antonello Ricci. Cos’è l’identità di un luogo, quel filo rosso che, spesso, rischia di perdersi o diluirsi in una modernità galoppante? Un luogo conserva, comunque, quelle tracce indelebili e uniche, del suo passato ma anche del presente?
Domande ancora più interessanti quando l’oggetto di tali interrogativi è una terra come la Tuscia. Non perché la Tuscia abbia un’identità più marcata di altri luoghi ma, anzi, proprio perché questa terra sembra avere come filo conduttore, una frammentarietà quasi da mosaico. Tipica, per altro, delle terre di confine, di passaggio e di transito. E, per entrare subito nel vivo della questione, veniamo subito presi per mano dall’intervento scritto proprio di Pifferi, dal titolo che, a che senza punto interrogativo, sembra porsi come ipotesi e come domanda nello stesso tempo: Nullus locus sine genio”. In poche righe siamo introdotti lungo un sentiero dalle molte sfumature. Scrive Pifferi: “L’idea di luogo come spazio vivo e vissuto, generatore di una interazione attiva tra ospite e luogo, era molto più sentita nell’antichità rispetto a quanto lo sia nella contemporaneità. Il concetto di genius loci, ad esempio, tendeva ad identificare le divinità secondarie che lo proteggevano e tutelavano, quelle forze ignote e quelle tensioni umanamente incomprensibili che caricavano di una varietà di significati e simboli un determinato luogo, fornendone una sorta di esclusività se non addirittura di unicità.”
Da qui a inserire il concetto di identità che passa attraverso l’alterità di uno sguardo è un attimo, se ci si pensa bene. Perché i luoghi, come le persone, in qualche modo ricompongono i frammenti di cui è fatta la loro presunta identità anche attraverso la percezione altrui. In un continuo gioco-scambio di ricordi, emozioni, cultura e tradizioni. Gioco-scambio ancora più prezioso se applicato ad una terra chiamata Tuscia dove Tuscia è, non dimentichiamolo, un neologismo abbastanza recente che va ad indicare una terra varia e con elementi di discontinuità sia dal punto di vista territoriale sia, ancora più, storico. E forse, proprio per tal motivo, l’identità della Tuscia (o una delle sue possibili identità) è data proprio dal suo essere viaggio e sguardo del viaggiatore.
Per questo motivo il libro raccoglie anche fondamentali pagine dedicate proprio al rapporto, umano e letterario, che con la Tuscia ebbero alcuni viaggiatori o comunque uomini e donne in transito; da Luciano Bonaparte a Cristina di Svezia, da Montaigne a Madame de Guébriant. Un’identità che passa, come u caleidoscopio, proprio attraverso gli occhi e la sensibilità di uomini e donne a loro volta alle prese con la proprio di identità. La letteratura di viaggio, in Tuscia, sembra intervenire come elemento fondante in questa analisi-indagine sul termine identità. Che sia influenzata dall’illuminismo del ‘700 con la sua razionalità o che sia impregnata dalla soggettività e dall’estetismo dell’800 e dei primi del ‘900, la letteratura di viaggio sembra essere uno dei tasselli della Tuscia che trova parte della sua identità nell’essere una terra che si fa raccontare.
Ma il racconto è, per forza di cose, qualcosa che passa attraverso la pelle di chi scrive restituendo, per tal motivo, immagini sempre diverse, a volte iconiche, sempre parziali (senza alcun giudizio di valore in questa parola) e forse proprio per questo capaci di riportare qualcosa che sia comunque riconoscibile. Che sia questa l’identità della Tuscia? Probabilmente l’elemento più interessante di questo testo (e non certo il solo) è proprio la pluralità di saggi in esso contenuti che, proprio per la loro diversità, più che risposte portano altre domande. Perché la parola identità, tanto più quando si tenta di riferirla ad un luogo, si fa sfaccettata. E probabilmente è questa una delle provocazioni identitarie di questa terra viterbese.
Non poteva mancare uno scritto dedicato ad Annio da Viterbo, visceralmente e con tutte le fibre del suo corpo, impegnato a costruire davvero pezzo a pezzo l’identità della città capoluogo. Non solo la disperata ricerca di un’origine quasi mitica della città ma anche una sicuramente appassionata disamina filologica sul suo stesso nome. È proprio dalla filologia e dentro di essa che il domenicano cerca, con tutte le forze, di creare e crearsi una vera e propria immagine identitaria di Viterbo. Che lo si discuta o meno, che lo si rilegga con una più o meno velata ironica superiorità, Annio resta un passo imprescindibile per capire quanto l’identità, spesso, sia un’ancora di salvezza non solo per i luoghi ma anche per chi li vive.
Odeporica, Viaggio
Edizioni Sette Città
2011
224