Questa volta non parliamo di un libro. Questa volta parliamo di tre libri. Libri che, in una comoda, dal punto di vista funzionale, classificazione, possono essere definiti libri di viaggio. Ma che, in realtà, sono anche qualcosa di più. E non perché la definizione di “libri di viaggio” sia riduttiva. Semmai incompleta. Il rapporto tra scrittura e viaggio è, per sua natura, complesso e composito e va a toccare moltissimi elementi, arricchendosi di sfumature. Quali? Secondo noi, in primis, le stesse sfumature di cui si compone l’esistenza. Un libro di viaggio, viaggia appunto. E, così facendo, si porta dietro le stesse mutazioni, le stesse paure, curiosità e domande di un viaggio. Domande. Forse è questa la parola chiave da cui partire. Quanto, chi scrive di un viaggio, racconta il viaggio medesimo e quanto il viaggio racconta chi scrive? Quella che può sembrare, a prima lettura, una domanda un po’ autoreferenziale, diviene probabilmente la chiave di lettura di tutta la scrittura di viaggio. La continua osmosi tra stati d’animo, luoghi attraversati, scrittura di tali luoghi ed emozioni è, inevitabilmente, una delle cifre dell’odeporica. Anche la dove l’oggettività del racconto sembra essere il filo rosso del racconto stesso, non è possibile uscire dallo sguardo personale di chi scrive. Insomma, come ci ricorderebbe anche la fisica, il fenomeno osservato non può non essere influenzato dall’osservatore. Anche dunque un racconto “oggettivo” resta comunque influenzato da ciò che l’osservatore ha deciso di guardare. Anche quando, apparentemente, sembra non averlo deciso. In altre parole, come direbbe Freud, la scrittura di viaggio sarebbe, per sua natura, una “scrittura idiotica”. Dove idiotica è da intendersi come personale, individuale ed individualistica. Altra caratteristica della scrittura di viaggio è la sua sostanziale natura autobiografica. Se, per essere chiari, un romanzo non necessita, per forza, che chi lo scrive abbia vissuto ciò che racconta (per lo meno non totalmente) la scrittura di viaggio solitamente parte da un viaggio effettivamente vissuto e compiuto. Salvo restando la possibilità di inserire elementi di elaborazione, la scrittura di viaggio deve raccontare qualcosa che si è davvero provato. Che sia un diario in tempo reale o che sia la narrazione mediata dal tempo del viaggio stesso. E questa natura “autobiografica” è, ancora di più, la prova che ciò che si scrive sia una sorta di restituzione di sé stessi dopo essersi immersi (poco o tanto) in un luogo. In tal senso raccontare un viaggio vuol dire anche farsi raccontare dal viaggio. Per questo motivo ho voluto leggere tre libri di viaggio, chiamiamoli così. Due mi sono stati suggeriti dalla lettura del bel libro “Odeporica 2.0” dell’editore Sette Città e si tratta de “Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro” di Enrico Brizzi e di “Il sentiero degli dei” di Wu Ming 2. Il terzo è stato, in realtà, una rilettura di “Verso la foce” di Gianni Celati. Il risultato finale (che finale non è mai, proprio come un viaggio) è stata una sorpresa/conferma di quanto scritto sopra. Cominciamo dal primo. “Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro”. Si tratta, come dichiarato, di un viaggio di fantasia ma l’autore ha davvero percorso la Via Francigena da Canterbury a Roma nella stessa estate (quella del 2006) in cui è ambientato il libro. Corrispondenza dunque di percorso e tempo ma elaborazione, o rielaborazione, del viaggio. La storia è quella di quattro amici che si mettono in viaggio in quella che è una sfida, una vacanza, una fuga e molto altro. L’età, trent’anni circa, è quella in cui più facilmente, per parafrasare un personaggio del film Mediterraneo di Salvatores: “Non si è ancora deciso se perdersi per il mondo o mettere su casa”. I quattro amici vengono, ad un certo punto, raggiunti da una figura da subito inquietante, quella del pellegrino, o sedicente tale, Bern. Attorno a questa figura si catalizza tutta una serie di avvenimenti e azioni che fanno da cornice al cammino. O è il cammino che fa da cornice agli avvenimenti? Cosa rappresenta Bern? E perché l’autore ha deciso per l’espediente letterario di far aumentare la tensione della storia in concomitanza con l’aumentare della salita del cammino? Forse non è neanche importante trovare risposte a queste domande. Forse ciò che importa, almeno per me, è avvertire come il racconto di un viaggio effettivamente effettuato sia divenuto l’occasione per altri sviluppi narrativi. Che con il viaggio in sé potrebbero non avere un legame necessario (la storia avrebbe potuto avere altre ambientazioni) ma che dal viaggio ricevono la bella corrispondenza tra passi in avanti sui sentieri e passi in avanti nella storia. E ciò che appare piano piano, andando avanti a leggere, è invece la necessità di ciò che non sembrava necessario: cioè che quella storia fosse ambientata lungo la Via Francigena e non altrove. Sembra in contraddizione con quanto ho scritto due righe più su? Se è così è proprio per la natura complessa della scrittura di viaggio. Dove ogni elemento, anche paesaggistico, diviene metafora di altro. Anche l’elemento quasi giallistico, di una parte della vicenda. Interessante anche l’uso della seconda persona plurale come voce narrante. Che sembra suggerire una sorta di distacco in una scrittura a cui solitamente si associa una narrazione in prima persona. Scrittura di viaggio, dunque, quasi come scrittura speculare ad una scrittura di sé stessi intesi come gruppo. Corale con inserti individuali. Il secondo libro “Il sentiero degli dei” è, forse ancora più del primo, un esempio di quanto la scrittura di viaggio sia talmente complessa da divenire, paradossalmente, scrittura “tout court”. Racconto del cammino tra Bologna e Firenze, ma anche un saggio, forse un reportage ma anche una denuncia/inchiesta (in questo caso sui danni provocati dalla realizzazione della linea ad alta velocità tra Bologna e Firenze appunto. Qui protagonista è un uomo, sposato e padre di famiglia, che decide di prendersi del tempo per sé per fare questo cammino. Il personaggio è inventato ma il sentiero è reale. Come reali sono gli inserti di cronaca e alcuni dei dati riportati. In questo palinsesto di livelli di scrittura/lettura, la cosa che appare molto potente è proprio il fatto di una scrittura di viaggio in cui il protagonista diviene il percorso. E non solo in senso letterale. Ancora una volta è un viaggio in cui le tappe entrano in un gioco di specchi molto più grande dell’insieme delle tappe stesse, cioè del viaggio nel suo complesso. Scrittura di viaggio che diventa contenuto e contenitore al contempo. E questa è una delle più evidenti opportunità della cosidetta odeporica. In questo caso specifico ancora più avvertibili grazie al fatto che, questo testo, può davvero essere letto come una guida per escursionisti, come piccoli racconti, come denuncia o come tutto quanto ho scritto prima. Si tratta, come ben scrive Stefano Pifferi in Odeporica 2.0 di: “una struttura tradizionalmente diaristico-itinerante, che sfrutta lo spiegamento della narrazione secondo le coordinate spaziali tipiche dell’itinerario miste a quelle della narrazione cronologica e a scansione temporale del diario, in cui cioè la narrazione degli eventi accaduti al viaggiatore avviene giorno dopo giorno, si unisce l’altra grossa matrice che taglia trasversalmente il Sentiero degli dei”. Quale? Quella appunto degli inserti extra viaggio, fatti di pensieri, considerazioni in forma quasi di brevi novelle. E non è questa, forse, un po’ di quella osmosi di cui parlavamo all’inizio e che fa della scrittura di viaggio un continuo passare dal racconto dei luoghi al racconto che i luoghi fanno di chi scrive? Il terzo libro “Verso la foce” è scritto con quella che mi viene da definire sì scrittura di viaggio ma anche scrittura da entomologo. Celati effettuò negli anni ’80 un viaggio dentro e attraverso le campagne della Valle Padana insieme ad una gruppo di fotografi per raccontare, appunto, il paesaggio italiano. La definizione di scrittura da entomologo sembra venire poi confermata (io non le avevo ancora lette) da alcune parole dell’autore che definisce i racconti di cui si compone il libro come “racconti di osservazione”. E qui, ancora una volta, quello che sembra il più oggettivo dei tre libri non può prescindere da ciò che Celati ha deciso di osservare o si è trovato ad osservare. E dunque, ancora una volta, la scrittura di viaggio si conferma scrittura/osservazione anche di chi scrive. I luoghi entrano inevitabilmente in risonanza con gli stati d’animo di chi li osserva e poi li racconta. E il racconto si impregna, per forza, della sensibilità dell’autore. Qui ancora più potente proprio per la sua capacità di vedere i dettagli e di raccontare ciò che ai più non verrebbe da raccontare, come gli alberi malati, i capannoni, le bottiglie di plastica che galleggiano sul Po, gli sguardi, le parole delle persone anche quando non dicono nulla. Non a caso, credo, i quattro racconti vengono presentati come “attraversamento d’una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni.” Attraversamento dunque, viaggio, ma anche scrittura dei margini e del quotidiano. Una canzone fatta di luoghi, di piccoli e sconosciuti paesi, di cartelloni pubblicitari, di alberghetti, di storie da niente dove il niente diventa il luogo più gravido di cose che mai si possa descrivere. Tanto per rendere l’idea ecco due righe: “La venditrice sotto l’ombrellone mi ha venduto delle pesche e mi ha dato una bottiglia d’acqua per risciacquarmi le mani. Forse sulla cinquantina, non sembrava stupita che andassi a piedi”. Una scena normale, quasi descritta al microscopio che diviene viaggio nel viaggio. Come quella in cui Celati racconta il suo arrivo alla stazione di Portomaggiore: “Il salone vuoto col marmo marezzato alle pareti, la macchinetta con le palline di chewng gum e un campanello che suona per annunciare il treno”. Non sentite quanto viaggio c’è in queste parole? E quanto c’è, in queste parole, dell’autore stesso? Mi fermo qui. Perché la scrittura di viaggio, come il viaggio, è un’esperienza da vivere sulla pelle e sui nervi.
Sette Città
2012
84