Spariti troppo prematuramente i Pavement di Stephen Malkmus, parecchi anni fa, nessuno può gridare allo scandalo se il ruolo di n° 1 dell’indie rock viene oggi e da qualche anno ricoperto dagli Okkervill River, già responsabili di una bella discografia, nella quale riluce il capolavoro “ Black Sheep Boy “ del 2005, un disco che vi invito a recuperare ed ascoltare con attenzione. Un vero gioiello. Will Scheff. leader della band, è al rientro, dopo qualche tempo, con un nuovo disco, “ Away” , dopo una fase di grande difficoltà, determinatasi sia nella sfera degli affetti ( la morte dell’amato nonno, cui era molto legato), sia nella sfera professionale ( praticamente tutti i vecchi componenti della band lo hanno abbandonato). Ma i grandi non demordono! Scheff si è chiuso al lavoro e, contando solo su se stesso, ha tirato fuori questo nuovo disco, costruito su 9 lunghe composizioni. Disco pressoché acustico, molto intimo, anche lento di passo, ma sicuramente assai espressivo. Chi cerca sensazioni “forti” dal rock potrebbe tranquillamente farne a meno, ma la qualità generale è talmente alta da generare un sicuro e sincero interesse per esso. Le canzoni sono morbide, avvolgenti, ricche di suoni e sentimenti. Sono “progressive “nel senso che crescono ad ogni ascolto successivo. Per esempio, l’iniziale “ Okkervill River RIP “ è subito un piccolo capolavoro. Acustica, quasi cameristica, con un profumo irresistibile di cose antiche, con chitarra acustica e contrabbasso, con l’inserimento progressivo del piano e di altri strumenti (a partire dalla batteria), percussioni, un organo sibilante e forte sullo sfondo del brano, col cantato di Scheff che si avvicina in modo incredibile a quello di una versione acustica attribuibile al grande Robert Smith dei Cure: tutto questo come può non conquistare? Ascoltatelo e saprete dirmi. Grandissima musica. Chi può discutere la bellezza di un pezzo siffatto? Dieci e lode. Call yourself Renee” si apre col suono degli archi, poi il passo più rapido prende per mano la melodia, quasi demodè, e la sposta verso un paesaggio sonoro assai vicino a quello della mai dimenticata Penguin Cafè Orchestra. Contrabbasso e vibrafono, assieme al piano, danno sostanza alla tessitura. La trama compositiva è complessa, ricca delle intromissioni degli archi, con la voce che si aggrappa alle note più alte per emergere ed avere il suo spazio vitale. Una tromba pallida si sveglia improvvisamente e si affaccia al balcone di un palazzo ricco di fascino. Bella song e piena di trovate. “ The industry “ è più squadrata e sagomata ed anche molto più semplice come approccio. Conserva intatto un certo spirito giovanilistico quasi universitario. Qualche difettuccio nell’ambito della richiesta profondità espressiva, ma non è peccato grave. “ Comes Indiana through the smoke” ed è subito capolavoro. Apertura coi rumori di un forte temporale e scampanellii vari ed anche il suono di una chitarra acustica magnifica. Veramente una grande cosa in musica. Lo spessore ispirativo risulta alto. Una sorta di passeggiata su asfalto bagnato dalla pioggia ì, con il sole che stenta ancora farsi vedere, è un pezzo decisamente autunnale, con la tromba che lo porta a spasso con lievità. Eccellente ! “ Judey on a street “, al di là del titolo, con piano “ a scalare “, una percussività nevrastenica ed una voce sull’orlo della disperazione, esplode in mille schegge liquide di elettricità. Ha temperamento e nerbo questo brano e sposa l’urgenza con la liricità, impresa non facile e che riesce solo ai grandi. Ancora un piccolo gioiello della band. I synths sono splendidi, brano super riuscito. Esplosione di azzurro negli occhi ed animo francamente innamorato. “She would look for me” parte col canto degli uccellini ed un arpeggio di chitarra acustica che copula con piano e flauto ed una cadenza lievemente militaresca. Piccola favola dallo stile proto- Canterburiano in cui si inserisce, discreto, un organo espressivo. Bella ! “Mary on a wave” è il terzo- quarto capolavoro del disco. Ha un tiro speciale. Brano soleggiato che poggia su un riff estremamente musicale . Vicino alle cose che si sentivano negli anni sessanta ai juke box estivi , ma anche al suono ( vedi il sax) della Scuola di Canterbury . Brano splendido. Pare quasi inciampare, felice, nella sua stessa voglia di farsi amare. E’ amore da subito, enorme! “Frontman in heaven “è quasi “natalizia “nel suono e nell’atmosfera complessiva. “Rumorosa”, quasi strillata nella voce e nei suoni, fa sfoggio di forza ed impatto notevoli. Un brano lirico. “Days spent floating” si apre sul rumore del mare e chitarra acustica, piano e contrabbasso, più la voce, vanno che è un piacere. Molto poetica, ricca di pathos e di suoni che ti prendono alla gola, ti emozionano e non ti mollano con la loro dolcezza, conferma che il disco è di GRAN LIVELLO ( come del resto la stampa internazionale ha largamente evidenziato) ed uno dei 3-4 migliori in assoluto della loro discografia. Siamo sull’eccellenza assoluta, di sicuro. QUATTRO STELLE e mezza.
Indie Rock
2016