Ci sono libri che pongono domande tanto semplici quanto sostanziose. E questo è uno di quei libri. La domanda che viene spontaneo porsi prima ancora di averlo terminato (tanto è potente la sollecitazione) è questa: “Ci sono scrittori, osservatori della società italiana tanto visionari, oppure il nostro paese si è davvero fermato in una sorta di eterno presente?” Leggere “Mammifero italiano” di Giorgio Manganelli è come guardare un documentario sul nostro paese, realizzato tra gli anni ’70 e ‘80, e scorgervi alcuni tratti tanto archetipici da essere quasi caricaturali. Se non fossero tanto puntuali e precisi.
Tra le pagine di questo libro è impossibile non pensare a come, spesso, uno sguardo acuto sul presente (presente per chi scrive) possa divenire, quasi involontariamente, sguardo sul futuro. Quasi a rintracciare nell’attuale (sempre per chi scrive) i germi, i primi vagiti di ciò che poi, purtroppo, diverrà voce adulta. Come non vi fosse un progresso ma un continuo, immutabile trascorrere del tempo senza scarti e cambiamenti.
Mammifero italiano è un testo fatto di tanti piccoli testi. Quei corsivi che Manganelli scrisse, appunto tra anni ’70 e ’80, su vari giornali quali Il Messaggero o il Corriere della Sera, e attraverso i quali, con stile corrosivo, ironico e tagliente, commentò vari argomenti; dall’aborto, al divorzio, dalla famiglia alla patria, dal caso Tortora al tema delle raccomandazioni.
Tanti testi brevi, alcuni brevissimi, con cui Manganelli stravolge, ribalta, smaschera, molti dei falsi valori, falsi miti, ipocriti collanti, su cui il nostro paese ha basato la sua strana e paradossale identità. Uno stile fulminante ma mai privo di alta qualità letteraria per “raccontare” un paese che, come ricordato dallo stesso autore, sembra davvero “una madre avara e insieme indulgente” “che non dà il dovuto ma si lascia insolentire”. E baserebbero anche queste poche parole per ritrovare tutto un modo di essere di noi italiani, portati al lamento e ad una ripetitiva coazione a ripetere.
Sebbene siano passati quarant’anni da molti dei corsivi qui riuniti, la lettura evoca immagini attuali. E la cosa lascia abbastanza pietrificati laddove ci si soffermi a riflettere su cosa sia la cifra del nostro paese. Illuminanti in tal senso le pagine intitolate “Automobile” (un gingillo che per molti italiani è quasi divenuto, fin da allora, soggetto ontologico più che oggetto), o quelle dedicate al caso Tortora (con tutta la pletora di spettacolarizzazione e potere viscido e catartico al contempo della televisione e del giudizio sommario). O ancora quelle dedicate a “Carosello”, letto quasi come una sorta di gigantesco e normalizzante catechismo impartito (quasi subliminalmente) a milioni di italiani.
Per non parlare delle pagine dedicate all’aborto o al divorzio, in cui Manganelli racconta (senza raccontare) tutta l’ipocrisia e il maschilismo di una società in cui la donna è sempre puttana e il matrimonio una sorta di farsa, bigotta e ipocrita. La cui ipocrisia trova conferma nelle resistenze di taluni, in quegli anni, contro il divorzio. Non tanto perché fosse una minaccia per la famiglia, ma perché destituiva di fondamento il vero collante di moli matrimoni e cioè l’adulterio.
Ma è soprattutto la famiglia l’argomento maggiormente al centro delle frecciate dei corsivi di Manganelli. E qui, forse ancora più che per altri argomenti, emerge non solo l’intelligenza acida dell’autore, ma tutta l’anima di un popolo che nella mamma (intesa anche come patria ma anche come concetto filosofico per dir così) sembra aver seminato i semi di molte delle sue psicopatologie.
Mammifero italiano è un libro in cui Manganelli, come era proprio dei corsivi giornalistici, non fa cronaca, non dà notizie e, infondo, non esprime neanche giudizi. Stile, intelligenza e sarcasmo divengono una specie di lente con cui quella che era per lui l’attualità viene letta quasi fisiologicamente in altro modo. Come se ogni parola, ogni argomento, ogni concetto subisse una qualche trasformazione cellulare per diventare ciò che è: una mistificazione.
La brevità non è pressapochismo. Manganelli riusciva, con poche parole, a dipingere tutta l’ipocrisia di un paese che, credendo di cambiare, restava invece uguale a sé stesso. Gattopardiano è qui davvero un termine, a mio avviso, adatto. Restitutivo di una mentalità, quella italiana, perfettamente descritta fin dal titolo; mammifero dice praticamente tutto.
Da non perdere neanche la bella e interessante postfazione di Marco Belpoliti che del libro è stato il curatore. Si sente nostalgia di scritture come questa, di una lingua (la nostra) usata come faceva Manganelli. Si sente nostalgia e bisogno di sguardi come quello, in cui l’intelligenza (per sua natura cinica) smaschera quelli che vengono dipinti come valori ma che sono, invece, sterili mitologie di moda.
Piccola Biblioteca Adelphi
Saggistica
Adelphi
2007
150