In un’epoca (la nostra) in cui le valutazioni, su qualsiasi cosa o sono sfumate o addirittura inesistenti, bisogna pure che qualcuno “osi”, specie alla luce di una conoscenza “piena” di questa materia:
1) Kurt Cobain (Nirvana) ha definito questo disco “il disco più importante della storia del rock”
2) Sicuramente la formazione del periodo 1973–1974, responsabile di tre grandissimi dischi (due sono dei capolavori con la C maiuscola) è la migliore a tutt’oggi della storia dei fondatori del progressive rock.
Andiamo nel dettaglio: Bill Bruford è stato miglior batterista rispetto a Mike Giles, batterista del primo leggendario album del 1969, Greg Lake e John Wetton sono stati i due più grandi bassisti e voce della formazione ma, la mia preferenza va a Wetton come bassista, sicuramente più tecnico. Fripp è sempre stato, come leader, al suo posto a chitarra e mellotron e nello strumento che si contrappone alla sua chitarra, come secondo solista, il violino di David Cross vale il sax e flauto di Ian Mac Donald o di Mel Collins (ancora oggi nella formazione che verrà in Italia a novembre di quest’anno).
3) Questo disco chiude la storia dei “veri King Crimson”, quelli legati al prog rock romantico. Dopo, a partire dal 1981, con la ricostituzione saranno sempre fenomenali ma saranno anche un’altra cosa come suono.
Fatte queste dovute premesse, arriviamo alle considerazioni su questo disco immortale.
I King Crimson qui sono ridotti ad un trio: Robert Fripp (chitarra e mellotron ), John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria). Poi, per quello che pensava essere l’atto conclusivo della storia della band, Fripp aveva chiamato ospiti “storici” del gruppo, come Mel Collins al sax soprano, Ian Mac Donald al sax alto e soprano, Mark Charig alla tromba, David Cross, non più membro titolare, al violino, Robin Miller all’oboe. Ingegnere del suono George Chkiantz, registrazione agli Studi Olympic di Londra nei mesi di luglio ed agosto del 1974.
Già dalla copertina si comprende che il disco è cupo, capace di bilanciare in modalità pressoché perfetta il crudo suono abrasivo di riff feroci con gli sprazzi di dolcezza infinita di almeno due tracks straordinarie.
“Red” è la celebrazione delle ansie della vita, di accadimenti spesso crudeli, della stupida frenesia di ogni giorno ed anche delle nevrosi apparentemente incomprensibili che si scaricano sulle strade delle metropoli. Già a metà degli Anni Settanta eravamo in deficit. Figuratevi oggi! E’ anche la prima volta nella storia ed anche l’unica che i componenti del gruppo compaiono sulla copertina.
“Red”, il brano in apertura, sarebbe immediatamente divenuto un classico. E’ ispida, metallica, buia, specie nella parte centrale dove il violoncello ed il violino di Cross creano un’oscurità indicibile, mentre la chitarra di Fripp ci gracchia su! E’ un’ombra sinistra sul muro della nostra memoria. Poi, riparte il riff metallico ed urticante che la caratterizza e che resta indimenticabile. Nel frattempo, il basso di Wetton pare il mostro del Dott. Frankenstein che avanza, arrancando implacabile. Un trio, strumentalmente, di autentici fuoriclasse. L’elettricità che si riversa fuori dal brano è indicibile. Solo strumentale ma con una forza d’impatto belluina ed una logicità ferrea.
Il violino elettrificato di Cross, sempre cupo, sui toni bassi, introduce il gioiello “Fallen Angel “: la voce meravigliosa di Wetton e la chitarra acustica di Mastro Fripp sono una magia autentica. Si aggiunge anche l’oboe di Robin Miller, prima dell’esplosione del riff del leader che, arpeggia da par suo e ci strappa il cuore e l’anima, con Wetton cantante dalla forza incredibile e Charig alla tromba che arriva dove non ti saresti mai aspettato. E che dire del drumming fantastico di Bruford? Le architetture del basso sono di potenza “corporea” squassante autentiche contorsioni che concretizzano spicchi di profondità. Un basso Fender addirittura slappato (nel 1974) suonato come un tronco d’albero nodosissimo. Chi suona meglio di chi, tra di loro? Impossibile dirlo, secondo capolavoro del disco. Dopo due “botte” così si resta senza fiato per qualche istante, credetemi, per tutti coloro che ancora non conoscono questo gioiello di disco. “One more nightmare” parla di un incubo su un volo Pan American. Wetton era terrorizzato dal volare.
Il sax tremendo, tenore, di Ian Mac Donald ben descrive queste turbolenze d’aria e di animo. L’urgenza del volo, la nevrosi dell’anima, il terrore di dover decollare ed atterrare. Tutto è descritto alla perfezione. Il cantato è febbricitante, nervosissimo. La chitarra di Fripp segue partiture particolarissime, il suo ghigno è mefistofelico se contrapposto alle paure adolescenziali di Wetton. Mac Donald, che esplode al sax alto, adesso, dà un’ulteriore accelerata alla musica. Wetton prodigioso al basso, vero figlio del compianto Jack Bruce, il padre dello strumento, l’inventore dell’utilizzo del pollice sulle quattro corde elettriche.
Ai King Crimson di questa formazione piaceva parecchio l’improvvisazione, sia nei concerti sia in studio e “Providence”, col violino di Cross in evidenza lo dimostra. Un brano di incastri audacissimi, sperimentale, con effetti addirittura cacofonici, con Wetton (basso) e Bruford (batteria) che lavorano instancabilmente. Fripp irrompe ed accentua il carattere acre e sperimentale. Brano solo strumentale. Che spalanca la strada al capolavoro definitivo “Starless”, costruita su 12 minuti e 18 secondi stellari. Qui esplode il romanticismo dei Crimso, esplode la voce, esplode il mellotron di Fripp, assieme allo splendido sax soprano del folletto Mel Collins, grande protagonista nei precedenti dischi, “In the wake of Poseidon”, “Lizard” ed “Islands” ). Il cuore, la mente, l’anima sono in brodo di giuggiole. Una poesia irraggiungibile per chiunque.
Commovente nel suono “allungato” della chitarra di Fripp, che pare piangere. Ma anche in tutto il resto. La seconda parte del brano dimostra, ancora una volta, che non ce n’è per nessuno, strumentalmente.
King Crimson al TOP ASSOLUTO, come nel precedente capolavoro “Larks’ tongues In Aspic” del 1973. Quel che fanno basso, chitarra e batteria è impossibile da descrivere. E’ la lenta progressione di una buia costellazione intergalattica. E’ l’epilogo schizoide e tetro. L’ultimo raggio di luce rossa di un tramonto ineguagliabile. “Starless” parla di una rottura, di una fine di un rapporto, si tratti di amicizia od amore, è il grande commiato di una band ineguagliabile. Restate ad occhi chiusi mentre il suono sfuma. Meraviglia del creare.
Progressive rock
5 Ottobre 1974