Partiamo dal soprannome, Snakefinger. Vero nome Philip Charles Lithman (Londra 17 giugno 1949–Linz 1° luglio 1987). Nato a Tooting, nella zona sud di Londra, iniziò a suonare blues in piccoli locali ma, nel 1971 si trasferì in America, a San Francisco ed entrò nel giro del gruppo sperimentale e misterioso (non si è mai saputo che facce avessero!) dei Residents. Dopo qualche tempo tornò a Londra ma, vi rimase fino al 1975, suonando nei pubs ed in piccoli club assieme ad una band, Chilly Willy and the Red Hot Peppers, presto evaporata. Torna definitivamente negli Usa ed inizia la sua carriera solista coi primi due splendidi albums ma, già nel 1980 ha un primo infarto. Il soprannome sembra gli sia stato dato proprio dai Residents per il suo modo di artigliare le corde della chitarra (slide o normale che fosse) come un serpente (dito-serpente appunto).
Proseguì la sua carriera solista e continuò a suonare coi Residents e, proprio in appoggio alla tournee dei Residents, venne in Europa nel 1987. La mattina del 1° Luglio del 1987, giorno della data della tournee a Linz, venne trovato morto nella sua camera d’albergo distrutto letteralmente da un attacco di cuore. A quasi 38 anni da compiere. Per ironia della sorte, quello stesso giorno fu pubblicato il suo singolo intitolato “There’s no justice in life” (non c’è giustizia nella vita). Il destino è veramente incredibile! Questa, molto brevemente, la sua storia. Ma veniamo a parlare del disco scelto nei nostri “Monoliti”. Uno dei suoi due irrinunciabili.
Il vecchio 33 giri era composto da 9 selezioni scritte e prodotte proprio da Snakefinger e dai Residents, l’etichetta è la mitica RALPH RECORDS di San Francisco, la stessa tra l’altro, dei Residents e dei TuxedoMoon (la Luna in frac). Addirittura su un brano, “Don’t lie” abbiamo il “solo” al violino del grande Blaine Reininger dei TuxedoMoon che, ebbe i suoi problemi anni dopo con una violenta forma di artrite reumatoide che gli impedì per un lungo lasso di tempo di suonare il suo strumento, oltre che la chitarra. Detto per inciso, ho visto i TuxedoMoon a Roma all’Auditorium Parco della Musica il 12.12.2014 ed è stata un’esperienza indimenticabile! Ma torniamo a Snakefinger. La danza del disco inizia con “Golden goat” ed è subito gioiello! Riesco a percepire fino a tre chitarre sovrincise, ma potrebbero essere di più. Il bello è che la musica è persino orecchiabile ma lui, non concede nulla a questo aspetto. La finezza sonora è assicurata da un basso cavernoso, sempre lui e da un effetto di fondo stile “soffione boracifero” che, non si capisce con quale diavoleria venga prodotto.
Solo nel finale di brano, l’artista si lascia andare ad un minimo di solismo che, manco a dirlo è ricco di originalità e freschezza senza pari. Molto bella. Il secondo pezzo è “Don’t lie”, quello col violino di Reininger come ospite, è il festival del basso e del violino con la voce di Snakefinger, filtrata, che anticipa di ben 10 anni(!) quella di Les Claypool dei PRIMUS, servendosi pure di inflessioni simil zappiane. E’avanguardia pura qui. Ma la capacità di far strabuzzare gli occhi e le orecchie non viene mai meno. Ancora un pezzo interessante. “Classica” è poi, “The man in the dark sedan” (“L’uomo nel cappotto nero”). Capolavoro e qui piace davvero tutto! Il basso, molto presente, il synth suonato sui bassi a rinforzo, l’andatura da carrozza al trotto leggero guidata da un cocchiere che immagino vestito con un cappotto nero, la chitarra, capace di sprazzi di psichedelia autentica, molto vicina alle esplosioni inattese che dal suo strumento ricavava l’inarrivabile Frank Zappa. Ed ancora, la cura per i dettagli sonori per quel vestito di Arlecchino che solo i Gentle Giant sapevano creare nel loro suono. Veramente una leccornìa incredibile. Capolavoro. Staresti ad ascoltarla per ore con questo suono di batteria che, letteralmente, rotola. “I come from an island”, composta dal solo Lithman ed è un’altra perla di inestimabile valore. Ha passo veloce, tonalità sui bassi, voce sui bassi, sciabolate di chitarra incredibili che fendono l’aria. In due–tre momenti durante l’arco del brano, questa chitarra incredibile fende l’aria confermando l’intelligenza compositiva e l’arte di Snakefinger, davvero un grande protagonista trascurato al pari di in altri contesti, Robyn Hitchcock. Bella anche questa. Il primo lato del vecchio disco si chiude con “Jungle princess”. E’ la più “difficile” del lotto. Chitarra e percussioni creano un tappeto liquido nel quale si inserisce, come una vipera, la chitarra del protagonista. Non ha un suono semplice, è vicina alle cose più sperimentali dei Residents ma in questo contesto ha la sua ragione di essere. “Trashing all the love of history”, titolo mica da poco (!), è slabbrata e dissonante col basso sempre prepotente, la voce schizzata dell’autore tra Zappa ed i Primus che sarebbero venuti nei novanta, tessiture ipnotiche e serrate, insistente, la chitarra che viene letteralmente violentata con suoni schizoidi, sibilanti, splendidi, devo dire. Lithman era davvero un grande chitarrista e qui lo si sente in pieno. La voce è spesso gridata, in questo contesto liquido. “Save me from Dalì”, persegue lo stesso intento trasversalmente anarchico. Con stop e riprese nevrasteniche, pure metalliche con rumori pure di sveglie e onirici e spettrali respiri senza identità corporea, simil ectoplasmi. Uno scampolo di arte davvero dadaista in piena osservanza col dettato dello straordinario artista da cui prende il titolo. Nuovo capolavoro con la gorgogliante “Living in vain” (altro grande titolo!), più vicina alla scansione di un pezzo rock. Ma sempre tremendamente “disturbata”. Una batteria metronomica e sibili di synth che non t’aspetti, basso pulsante, queste ondate di elettronica che carezzano l’orecchio e provocano sotto l’ombelico, non possono lasciare indifferenti! E, per ultima, questa chitarra inconfondibile che non suona mai una nota “cretina” ma, strizza il cervello fin dove e quanto può. Formidabile! Un brano che da solo, varrebbe il prezzo del disco. “The picture makers vs. children of the sea” è praticamente divisa in due parti. Obiettivo evidente è quello iconoclasta di destrutturare un pezzo rock con una chitarra ed una batteria , nella prima parte, incredibili. Poi, un beffardo organino tiene un filo di fumo di musica, supportato da voci quasi infantili che paiono recitare quasi una filastrocca. La parte vocale fa venire i brividi e la musica torna dalle parti dell’organino con effetti da film dell’orrore raccontato a dei bambini.
Di nuovo, scansioni sonore a scalare alla Van Der Graaf Generator per un finale splendido, dove voci e strumenti si fondono in un magma splendido che va a chiudersi, pensate un po’, sulle note dell’organino e noi qui a piangere per un talento purissimo, richiamato da un bieco destino con largo anticipo sui tempi dovuti. SPEAKLESS, letteralmente muti, senza parole. Un brano meraviglioso a cavallo tra sperimentalismo e Scuola di Canterbury. CAPOLAVORO DI ARTE VIVIDA. Mi vengono in mente quei negozi di libri antichi tanto cari al Polansky de “LA NONA PORTA”. Imperdibile!
Rock
1980