Parlare dei Suicide, duo composto da Alan Vega (vero nome Boruch Alan Bermovitz – New York 23.6.1938 – New York 16.7.2016), morto in pace nel sonno quest’anno, anno pieno di vittime di artisti, nefasto 2016 e Martin Rev (vero nome Martin Reverby–New York 18.12.1947), il primo vocalista, il secondo tastierista “lisergico” con pianini ed altre diavolerie più o meno trattate, fa venire letteralmente il “magone”. Tempi comunque meravigliosi che sono stati e che non torneranno mai più e ringrazio il destino oltre che Qualcuno lassù di avermeli fatti vivere in presa diretta. Anzi, ricordo perfettamente i commenti scandalizzati di tante ascoltatrici nel 1978 allorchè, per primo in Italia mandai questi signori via radio nella trasmissione radiofonica nella quale curavo il rock inglese ed americano dalle 21.00 alle 24.00 tre volte a settimana. La loro musica slabbrata e senza compromessi, assieme al trauma per tante orecchie muliebri, dei PERE UBU di “The modern dance” per me miglior disco del 1978, col brano “Sentimental journey”, storia in diretta di un suicidio tra “fili di voce” irrazionale e rumore di vetri rotti, mi procurò l’ira di una disgraziata che telefonò in diretta mentre, il brano stava andando dicendo che eravamo tutti matti a mandare quella roba lì. Bontà sua! Ancora ringrazio mentalmente l’emittente per la fiducia che riponeva nelle mie arti di stregone… Senza compromessi. Tutta questa introduzione per dire che i Suicide hanno fatto parte, coi loro soli cinque dischi pubblicati (l’ultimo nel 2002), di quella sparuta flottiglia di artisti che se ne sbattono delle reazioni dei soliti benpensanti ma continuano a provocare. Incessantemente. E loro provocavano davvero nelle esibizioni in piccoli club americani tanto che, a Vega, capitò pure di dover evitare una scure tiratagli da qualcuno del pubblico e diretta contro il suo onorevole cranio. Incidere per la prima volta un disco all’età di 39 anni (anno 1977 è il disco di cui stiamo parlando) è veramente un’anomalia. Questi due artisti si incontrarono casualmente “come due vascelli che si incontrano nella notte perché “sostanzialmente si è sempre in due a creare una band” come piaceva dire ad Alan. Allen Ginsberg rimproverava sempre loro di aver scelto quel nome lugubre, Suicide. Quella copertina del disco bianca, candida con quel rigagnolo rosso purpureo di sangue, quasi l’effetto maligno di una rasoiata sulla pelle bianco latte di una bionda, un sapere consapevolmente che sarebbero andati ad influenzare migliaia di altri artisti alternativi se non nel suono, sicuramente nel modo di pensare e di porsi. Bruce Springsteen li ha omaggiati spesso, non ultimo alla morte di Alan a luglio di quest’anno, inserendo in scaletta un loro pezzo. Ma noi inesorabili, sempre alla ricerca dell’”Altra cosa” di Springsteen non sappiamo che farcene… Cramps, Billy Idol, Lydia Lunch, Clash, Henry Rollins, PJ Harvey, Costello, questi solo alcuni dei nomi della scena inglese ed americana a loro debitori in qualche modo.
Definiti dalla stampa di allora “stupratori, pornografi, colpevoli di aver voluto destrutturare il rock” ed altre amenità ma in realtà, inventori e basta. La batteria elettronica, cuore pulsante del loro suono, l’organetto psichedelico, beffardo e pungente di Rev, le interpretazioni vocali melodrammatiche e rabbiose di Vega sono il de profundis del sogno americano fatto schiantare, con ferocia cosciente, contro la realtà quotidiana di sobborghi metropolitani puzzolenti, di fumi che escono dai tombini, da ubriachi in cappotti improbabili che ti chiedono l’elemosina e poi estraggono coltelli a serramanico per averla. Un mondo di emarginazione sozzo e purulento. Liriche ansiogene, frasi farfugliate come in “Girl”, con quell’elettronica e quella tastierina maledetta e la voce che diventa sibilo orgasmico voluto. “Oh Girl..” e via ad andare; la ballata disperata di “Frankie Teardrop” che sbeffeggia uno del calibro di Dylan. Canzoni che non sono canzoni ma pennellate feroci di un Bosch su una tela fatta di minuziosi dettagli. Invisibili per i distratti che, come i cretini ed i fessi, infestano il nostro globo terracqueo. Loro erano davvero due alieni, lo sono stati. Al loro confronto, qualsiasi disco punk dell’epoca, anche il più essenziale e stringato, avrebbe potuto tranquillamente essere definito barocco.
Si pensi a quanto faticarono per convincere un’etichetta piccola ed alternativa a pubblicare questo disco. “Cheree”, sorta di carillon dolcissimo ed elettronico, ballata per un amore mai posseduto, questo cantato talora quasi inespressivo, il rock anemico ed ossessivo di “Ghost rider” per esempio, ma pure di “Rocket Usa”, la tossica sensualità delle già citate “Girl” e “Cheree” viaggiano tra l’ipnotico ed il disturbante, l’alieno per l’appunto, di cui si parlava in precedenza. Vega era impegnato nella pittura e pure nella scultura, artista a tutto tondo, lui e Rev troveranno un discepolo molto più portato al pop ludico in Ric Ocasek dei Cars ma, quella fu una storia più da Conad che da alternativa e quindi, non ci interessa. DISCO EPOCALE PER BAND SEMINALE. Mio tributo personale ad una band che per primo ho fatto conoscere in Italia già nel 1977.
Rock
1977