Nato a Viterbo il 25 ottobre 1991, laureato in  lettere (Università della Tuscia) e appassionato di musica (jazz, prog, elettronica).

E’ curioso notare come in ogni decade si sia esplicata l’arte della musica con differenti sensibilità, umori e attitudini. Si ha il boom del rock’n’roll, del beat, della psichedelia, del prog e del glam. Si è passati dal ciuffo di Elvis agli hippy, fino ai trampoli e alle parrucche di Bowie e New York Dolls.
Dalla metà degli anni Settanta vengono a galla i malesseri della società industriale. Non c’è solo l’Inghilterra a padroneggiare i movimenti del post punk e della new wave, ma anche l’ America, che risponde con altrettanto carisma e originalità. La nascita della band è precedente allo sviluppo dei due generi nominati. Il cantante David Thomas e il chitarrista Peter Laughner sono le menti del combo di Cleveland. Nel 1975 debuttano con il 45 giri “30 Seconds Over Tokyo / Heart Of Darkness”.
Non l’avessero mai fatto. Le rappresentazioni nevrotiche della psiche umana. Lasciando da parte Hammill e Wyatt, il ritratto nevrotico della psiche umana era stato esplicato specialmente da Stooges e Velvet Underground. L’originalità e lo shock dell’esordio dei Pere Ubu non sono al pari con nulla. “30 Seconds Over Tokyo”, quindi, segna il trionfo dei mali della storia, scaraventandosi in un abisso caliginoso.
Dopo svariati singoli si consolidano sempre più le linee asettiche di chitarra e la desolante cantilena di Thomas. Ogni componente svolge un’operazione che non si ferma al compitino, ma esplica senza limiti la propria concezione. Thomas riprende e personalizza con un pazzo falsetto le urla sguaiate di Captain Beefheart, mentre Allen Ravenstine sforna surreali giochi elettronici dai synth.
Segnali radio, psicosi e pause riflessive condiscono perfettamente il dissacrante disco d’esordio, uscito nel 1978. Il titolo è emblematico: “The Modern Dance”. Il caos generato dal consumismo viaggia parallelo all’alienazione dell’uomo e vengono simboleggiati senza censure dalla produzione Pere Ubu. Il disegno sonoro plasma la metamorfosi culturale che già dal 1974 i lavori di Brian Eno stavano effettuando, sbarazzandosi di qualsiasi definizione e ghettizzazione stilistica. Non ci sono confini o regole standard.
La prima traccia “Non Alignment Pact” parte subito in quarta. Ci scontriamo con un rock’n’roll trasfigurato dai fischi analogici e gelidi del synth e dallo sfogo delle turbe di Thomas. La destrutturazione ritmica della “danza moderna” nella titletrack è semplicemente storica. Un funk primitivo con ossessive linee vocali e contorsionismi di tutti gli strumenti. Un ballo assillante, incalzante, che funge da Bibbia per l’intero movimento post 1977.
“Laughing” ci svela le astute improvvisazioni jazz con caratteristici teatrini, ma è con “Street Waves”, altro caposaldo, che si profetizza l’Apocalisse socio-politica. La sorpresa sta nel non raffigurare l’ ultraterreno, con mille effetti e viaggi fantasmagorici, ma nello sceneggiare il quotidiano, il qui ed ora. Il messaggio è: siamo tutti prodotti di un sistema, di una fabbrica, e difficile sarà la libertà.
Il puzzle dadaista di “Chinese Radiation”, però, strizza l’occhio alle gelide artificialità dei due album successivi (“Dub Housing” e “New Picnic Time”). Altre carte vincenti sono “Life Stinks” e “Real World”, dove si sbandierano aspre visioni.
In ogni composizione si emana la maschera allegra della commedia e quella triste del dramma. Le sorprese sono sempre dietro l’angolo: la danza zulù su ritmo androide di “Over My Head”, il free collage di “Sentimental Journey” e i tristi clown dell’ubriaca “Humor Me” a chiudere il sipario. Senza sedersi su una cattedra o peccare di superbia, “The Modern Dance” guarda al futuro aggiornando tutta l’arte espressa fino al 1978.

The modern dance Book Cover The modern dance
Pere Ubu
Rock sperimentale
1978