Ritorno dopo ben sei anni per gli HELMET di Page Hamilton, signori del rock, quello vero, di New York. “DEAD TO THE WORLD” farebbe resuscitare un morto. Checchè ne possano dire i soliti ascoltatori distratti e frettolosi, va collocato vicino alle cose migliori storicamente della band. Intendo dire, vicino a “Meantime” (1992) e “Betty” (1994), i loro capolavori. La carica e la rabbia ci sono sempre. Non sono più rivoluzionari ma chi se ne frega!. Loro (Page Hamilton ed Helmet) hanno ispirato tutto il rock elettrico duro dei Novanta e tutte le migliori bands che sono arrivate dopo. Solo Page Hamilton è rimasto della formazione originale. Non ci sono più lo straordinario, superlativo batterista John Stanier, oggi con gli sperimentali Battles, su altri lidi sonori, né il bassista Bodnar, presenza massiccia su “Aftertaste” del 1997. Questo disco gira sul lettore della mia auto e dentro casa da quando è uscito: non mi è mai successo quest’anno. Il segreto è nella velocità, essenzialità, rapidità, elettricità di un suono che ha pochi rivali al mondo. E LA CRITICA DORME!
Gli altri tre che lo aiutano nel disco sono: Kyle Stevenson alla batteria, Dave Case basso e Dan Beeman alla chitarra ritmica; tutti bravissimi, specie i primi due. Undici selezioni per una durata di 36 minuti e 6 secondi. Breve, stringata, essenziale. Un album di vero rock duro, metropolitano! Si inizia con “Life or death” ed è subito capolavoro. Sono da subito scintille. Hamilton canta su un rock velocissimo e fumante col consueto muro del suono di marchio Helmet, una batteria spettacolosa, un basso che non perdona. E’ il loro classico brano-staffilata come lo era la straordinaria “Pure” su “Aftertaste” del 1997. Il “solo” di chitarra del leader è devastante, imprendibile, sfugge come un’anguilla. Bellissima! La critica chiacchiera, blatera, si distrae, dice cazzate inaudite ma, Hamilton merita rispetto, un grande rispetto. Ancora una botta incredibile è l’attacco fulmineo della chitarra nella successiva “I love my guru”, altro rock da far drizzare i peli sulla schiena. Cantata con cattiveria e malignità inossidabile su tempi strettissimi, che sono vicinissimi al punk. La band viaggia come un orologio svizzero! Sei anni non sono passati invano. Il disco precedente stava almeno due piani sotto come qualità. “Bad news” si gioca la carta di un cantato “beatlesiano” su un suono che è un autentico muro. Frustate di elettricità paurose su una voce morbida e stranamente conciliante. Voce che viene da lontano, coretto quasi pop, con una batteria che ha un rullante micidiale. Il “solo” di Hamilton alla sei corde è infernale e risente della lezione di Tony Iommi dei Black Sabbath. “Red Scare” inizia laddove la precedente si era chiusa. Si sente addirittura l’influenza dei leggendari HUSKER DU di Bob Mould nel ritornello del coro.
Assai bella, questa song! Il suono è metallico, elettrico da far paura, ma nitidissimo. Grande lavoro pure del basso, qui. Chitarra stratosferica: per me, Hamilton, è il GOBLIN del rock duro. Spara zucche anfetaminiche ed infernali. Lucifero starà lisciandosi la barba! Se volete ancora la “RADICE” DEL ROCK, LA TROVATE qui! Non da altre parti. “Dead to the world” è incalzante, stile Killing Joke. La chitarra assicura alla voce un duo pazzesco ed una resa fulminea. Piace il suono sporco della chitarra ed il riff resta impresso in testa. Rock essenziale, assolutamente ed esclusivamente chitarristico e cantato dal leader “da mal di mare in crociera su nave”. E’ bellissima la porzione centrale con uno spezzatino di chitarra da far paura. Uno dei vertici in assoluto di un disco straordinario per questi tempi di “finocchielle” senza spina dorsale nel rock. “Green shirt”, rifacimento e tributo al grande Elvis Costello, è un’”oasi” che non c’entra nulla col resto del disco. Graziosa ma decontestualizzata. HELMET DEVE FARE ALTRO!. “Expect the World” recupera subito le giuste coordinate. Parte con un arpeggio di chitarra e cantato onirico, ancora una volta, stranamente morbido. Basso e batteria danno colonna vertebrale e sangue al brano. Mi piace tantissimo Page quando, con voce malignissima ed infernale, urla “Down!”, si impossessa del riff centrale e lo spella letteralmente. Finalmente chiudiamo il cerchio aperto con “Meantime” e “Betty”. Tostissima botta elettrica di quattro minuti e sei secondi che, nel finale, diventa plumbea e post-industrial. Loro sono grandissimi. “Die alone” è urlata, cattiva, monolitica su un wall of sound, squarciata da una chitarra che non vuole spiccare il volo definitivamente e resta volutamente compressa così come tutto il riff. Poi, quando si libra, alfine, è fuori assetto e digrignante. C’è tanta cattiveria qui. “Drunk in the afternoon” ha respiro asmatico, affannoso, arranca pesantemente; è un riff veramente alla Sabbath quello che la scuote. Buio, duro e tetro. Ancora l’ennesima lezione a centinaia di bands che hanno provato a copiarli negli ultimi 25 anni. “Look alive” ha un incipit con la voce del leader che parla ed è filtrata ad un tempo quasi militaristico. Si apre “a rosa di pallini” con una voce formidabile che fa venire i brividi e la pelle d’oca. Grandissimo brano di rock moderno. Piace subito e tanto. Grande elettricità nell’aria. Infine, “Life or death (slow)” è la versione rallentata del capolavoro iniziale del disco. Piombo autentico. Ha un fascino incredibile pure nella versione più lenta. HELMET, grande disco di rientro, dunque. Ma in pochi se ne accorgeranno, gli stessi che oggi celebrano “Meantime” e “Betty”. It’s too late. Astenersi perdigiorno, ragazzotti dalla lacrimuccia facile, sentimenti stile ottocento e dintorni. Qui c’è elettricità e testosterone FOR ADULT ONLY. GRANDE DISCO! QUATTRO STELLE. Il migliore di ottobre assieme al nuovo Korn, quarto in America nella classifica di Billboard ed al grande disco dei Drive- By Truckers, in un altro contesto sonoro.
Rock
Ottobre 2016