Fratelli di sangue e una Berlino grigia e spietata
Per parlare di questo libro, Fratelli di Sangue, è forse opportuno dire due parole sull’autore. Ernst Haffner è un uomo di cui si sa molto poco. Giornalista e assistente sociale, tra il 1925 e il 1933, di dissolse, possiamo dire così, molto probabilmente negli anni della Seconda Guerra Mondiale. In che modo? Non si sa neanche questo. Quello che, mi auguro, avrete presto tra le mani, è il suo unico libro. Che diviene dunque la sola traccia di cui disponiamo. “Un autore scomparso” in circostanze misteriose è qualcosa che va al di là di ogni più geniale piano di marketing. E va anche al di là di quanto accade, per esempio, con autori che non si sono mai voluti far vedere (pensiamo a Salinger) o sulla cui identità a lungo si è discusso (pensiamo al caso di Elena Ferrante) e sul cui presunto svelamento si sono levati dubbi ancora più grossi. Qui si tratta proprio di una vita di cui si sono persi totalmente i passi tranne, per fortuna nostra, quelli percorsi con le pagine di questo libro.
Perché questo libro è davvero un testo importante e denso di storia. Lo possiamo anche definire, per comodità, un testo di narrativa. Ma è evidente che le sue pagine raccontano una storia vera, quella della Berlino dei primi anni ’30 e storie vere, quelle dei ragazzi protagonisti di queste pagine. Una Berlino fredda, livida e spietata in cui si aggirano tantissimi senzatetto tra cui, moltissimi, sono i ragazzini. Tra espedienti, piccoli furti, disperazione, inesausta voglia di libertà a tutti i costi, ci viene raccontata una città e una umanità fotografate nel tragico momento in cui il nazionalsocialismo sta per salire al potere. E non è un caso che proprio i nazisti abbiano deciso che questo Fratelli di sangue fosse tra i libri da buttare nel rogo.
Bettole sporche e maleodoranti, teatri e biblioteche trasformate in rifugi improvvisati per le notti gelide, taglienti luna park in cui nulla ricorda il gioco ma, semmai, il tagliente viso di una ragazzina disposta a vendersi per poter fare anche solo un giro sulla giostra. Perché, in fondo, bambina resta. E in questo che qualcuno definirebbe sottobosco, gang di ragazzini che cercano di procurarsi pochi centesimi con piccoli furti, in fuga da riformatori e istituti di correzione. Umanità disperata che si mescola ad altra umanità disperata della Berlino di quegli anni in cui tanta era la miseria e la disoccupazione. Una Berlino fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi, magistralmente raccontata dall’autore con uno stile che nulla concede al pietismo o alla retorica.
Una Berlino che fa da teatro alle vite di questi ragazzi per i quali la libertà conta più di qualunque altra cosa. Anche a costo di vivere ai margini. Ma quali margini, sembra chiederci l’autore, visto che la sorte di questi ragazzini non pare poi molto diversa da quella di molti altri berlinesi. Il confine è sottile e sembra essere stabilito più dalla fredda burocrazia che non dalla natura delle cose e delle persone.
Un libro che si presenta quasi come un’analisi sociologica con le sembianze di un romanzo. Cornice dunque letteraria per una tela di portata tutt’altro che letteraria. Forse l’autore presentiva il rischio di scrivere ciò che stava scrivendo? Ma cosa più di un romanzo poteva riuscire nella denuncia sociale, nella restituzione spietata di polizia, servizi sociali, tribunali per cui, come scrive ad un certo punto l’autore: “mettere dentro o mettere fuori non faceva nessuna differenza”.
E, al centro di tutto ciò, la storia di Willi e Ludwig due ragazzi che lasciano la banda dei Fratelli di Sangue perché vogliono provare a vivere in modo onesto (stupende le pagine in cui l’autore ci racconta della loro idea di creare un piccolo commercio di scarpe usate) e capiscono che un certo tipo di “ribellione” rischia di essere solo funzionale al sistema stesso a cui vorrebbe opporsi. Questa è la loro ricerca di libertà, ad ogni costo. Una fuga continua anche quando non si vorrebbe fuggire. Chissà quanto c’è di autobiografico in questo anelito. Viene da chiederselo risalendo alle pochissime notizie sulla vita dell’autore che, pare, avesse ricevuto una convocazione alla Reichskulturkammer proprio da Goebbels in persona. Convocazione a cui Haffner ovviamente non si presentò.
E ciò che da subito non si capisce (e cioè perché questo libro sia stato bruciato dai nazisti) diviene invece sempre più chiaro man mano che ci si addentra nelle sue livide pagine. Non c’è nessuna indulgenza verso la furia militarista, nessuna indulgenza verso il mito dell’ordine assoluto e ancora meno nessuna indulgenza verso una spietata macchina statale che dovrebbe garantire le “magnifiche sorti e progressive”
Un romanzo, viene da dire, iperrealista, calato totalmente nel concreto che da voce agli “uomini piccoli” così immersi dentro lo sporco della realtà. E probabilmente è proprio questo iperrealismo a dare al libro quasi un andamento da reportage, senza alcun giudizio, almeno apparentemente. Il giudizio c’è, semmai, verso un’intera società, mai verso i singoli; per quanto meschini possano essere alcuni di essi.
Ludwig e Willi non si redimono semplicemente perché non hanno colpa alcuna. Perché, come dice Ludwig stesso, non vi è colpa alcuna nel rubare per fame. Come non vi è colpa nell’essere poveri. E questa sembra essere la chiave di lettura di tutto il libro, fin da subito, quando Haffner scrive: “Minuscoli elementi di quella infinita fila attendono assieme ad altri cento di potersi sottrarre a quel tremendo freddo umido e di essere ammessi nelle calde sale d’attesa”
Da leggere assolutamente
Narrativa
Fazi Editore
2016
206