Questo è un altro dei famosi MIEI DIECI DISCHI PREFERITI DI SEMPRE. Uno lo abbiamo già incontrato, “Miami” dei Gun Club e l’altro “Marquee Moon” dei Television lo incontreremo: questo è il terzo, non in ordine di stretta preferenza. Irrinunciabile. Apripista di tutto quello che si è sentito negli ultimi quasi 40 anni. Questi quattro laureati non musicisti divennero alla luce di quest’album, ma anche gli altri due precedenti non scherzavano, una delle band seminali di sempre. Riuscirono a fondere in una sintesi irripetibile per chiunque altro l’elettronica più avanzata ed il rock. Le ondate catatoniche di “I should have known better”, cantata dal bassista Graham Lewis, fanno saltare su dalla sedia, l’elettronica “parla”, gli attacchi cuspidali della chitarra di Bruce Gilbert creano varchi cerebrali irresistibili. La musica ha un fascino che è futuristico ancora oggi, ma legato pure alle astronavi su cui arrivarono gli antichi egizi…Questa continua andatura oscillatoria, la batteria che percuote senza pietà, come il tempo in un campo di concentramento nazista, lasciano una cicatrice che non si rimargina più nella corteccia cerebrale dell’ascoltatore. Il titolo dell’album “154” era riferito al numero dei concerti tenuti dal quartetto fino all’uscita di questo immenso, ma per davvero, capolavoro. L’ansia di sperimentazione di Graham Lewis e di Bruce Gilbert ben si miscela con la musicalità di Colin Newman, ancora oggi vero leader della formazione, tutt’ora in attività e che pubblicherà l’ennesimo grande disco (ne so no sicuro) il 31 marzo 2017: l’attesa è sempre forte per i WIRE!
“Two people in a room” ha ritmo sferragliante ed implacabile e la voce di Newman è maligna e melliflua. “The 15 th” illumina la musica di ieri, di oggi e di domani. E’ elettronica, ma con una musicalità pazzesca. Cantata da Newman, è una delle cose più morbide, ma pure più insinuanti che io abbia mai ascoltato! Bellissima e celestiale melodia, con questa chitarra che ti punzecchia le orecchie. Progressione incalzante, illuminata, lucidissima, echi e riverberi che si rincorrono in modo direi “sinfonico”: Solo ascoltando questo brano ci si rende conto di ciò. Capolavoro altissimo. “The other window”, recitata dalla voce di Lewis, è un brano glaciale che ha vita solo nella percussione metronomica della batteria di Robert Grey (Gotobed). Tremenda. “Single K.O”: ha un’andatura mai sentita prima. Più che dispari. Arrancante, che dà angoscia coi suoi scricchiolii, con un cantato completamente e volutamente fuori assetto. Intuizioni pazzesche in questo disco, sonorità anticipatrici di tutta la musica elettronica e non solo degli anni a venire. Mille colori liquidi, drammatici, lisergici, irripetibili nella dilatata “A touching display” che va a corrodere tutto quello che fin lì era stato il tessuto del pop col suo ululato da sirena della disperazione (sempre la chitarra filtrata di Gilbert). I sintetizzatori qui sono macchine ancora umanissime, prima che la chitarra graffiante si unisca a loro in parallelo. Effetti stranianti, incomparabili, unici. Bellissima. “On returning” ha una progressione elettronica portata avanti da synth e chitarra che allenta staffilate da paura, così come la batteria di Grey. Onirica, evocativa, glaciale ma umanissima, conferma nel disco una di quelle opere che contrassegnano un’epoca intera. Straordinario brandello di insalata cerebrale surgelata. “A mutual friend” è stranita e stravolta, con addirittura un oboe che galleggia in un lago ghiacciato, mentre in sottofondo arde una fiamma inestinguibile. “Blessed stat ” conferma che il disco fu partorito al culmine dell’ispirazione e per questo determinò quella che allora parve la fine prematura della band. Troppo bello, per essere vero. Il brano in parola è talmente bello da fiaccare, ti si piegano letteralmente le ginocchia, la melodia è irresistibile. Ma come si può fare una cosa così? Ancora oggi i Wire sono quasi su questi livelli…Cantata benissimo, immutabile nella scansione elettronica e della chitarra, risulta l’ennesima gemma di un disco inarrivabile. Da avere assolutamente. “Once is enough” è brutale e cacofonica, nella sua follia. “Map Ref. 41° N 93° W” identifica sulla mappa una località precisa, mentre la musica svolazza obliquamente e l’elettronica rimbalza letteralmente nella stanza, riempiendola completamente. Stupefacente. Da sniffare!
“Indirect inquieres” ha il respiro asmatico della creatura di un altro mondo che si avvicina di notte ad un villaggio privo di luci. Squassante. Cantata con le vocali tutte aperte. Impressionante. “40 versions” parte col basso di Lewis e ci innesta su una scansione che va forte in profondità, con la brutalità di uno scalpello meccanico che ti scarnifica. La voce è’ quasi aliena: perfetta; incredibile chiusura di un album incredibile. Ogni volta che lo rimetti sul poiatto /lettore, sempre le stesse magie! UNICI ED INARRIVABILI WIRE.
Rock
1979