Non lasciatevi ingannare dal titolo e, se avete qualche pregiudizio sull’attore, non lasciatevi ingannare neanche da quel pregiudizio. Questo è un film molto diverso da quello che ci si può aspettare dal connubio di un titolo un po’ piacione e un attore che ci ha abituati a interpretazioni non proprio superlative. Se ancora non lo avete visto procuratevelo, cercatelo. Insomma, mettetevi comodi e preparatevi a guardare un film destabilizzante, per molti aspetti. Un film molto diverso da ciò a cui pensiamo quando ci addentriamo nella cinematografia zombie. Qui non ci sono orde di morti viventi, non ci sono scene splatter di vaganti che si mangiano altri esseri umani, non ci sono combattimenti mirabolanti. No. Qui ci sono solo un padre, una figlia e lo straziante, dilaniante rapporto con la malattia e il distacco.
La cinematografia e la letteratura zombie ci hanno insegnato come la figura del walking dead sia sempre un pretesto per parlare di altro: dalla feroce critica socio-politica di Romero, alla serie tv The Walking Dead che ci racconta come il problema non siano i vaganti ma i vivi, lo zombie è sempre un metatesto, un gioco di specchi per parlare dei vivi. E, in fondo, anche qui, l’epidemia zombie è la cornice dentro la quale si dipinge altro. Ma in questo film l’altro di cui si parla è ancora più altro che in precedenti pellicole dedicate al tema. Anche, e soprattutto, grazie ad una sorprendente (e toccante) interpretazione di un Arnold Schwarzenegger in stato di grazia. Un personaggio a cui l’età certo e il ruolo, hanno conferito una mimica dolente, malinconica, disperata e, per una volta, non invincibile.
Non c’è assolutamente nulla, qui, dello Swarzy a cui siamo abituati. E ciò che ci viene restituito è un personaggio/uomo/padre di straordinario spessore e di umano dolore. La figlia, durante una epidemia globale, viene aggredita e contagiata. Il padre la cerca, la trova e cerca disperatamente di proteggerla, di evitarle ciò che, sa bene, essere la inevitabile fine. Non accetta di mandarla in quarantena e neanche di iniettarle il doloroso farmaco che metterebbe fine a tutto. Non può, non sa farlo, non vuole farlo. Anche perché sa che la figlia sa, con quella lucidità che, spesso, cala sui malati terminali andando a intrecciarsi con l’irrazionale speranza di chi sta loro vicino.
Attorno, un ottimo uso della macchina da presa che alterna visioni aperte su campi in fiamme e paesaggio in rovina a primi piani e interni intimi e racchiusi. Come intimi e racchiusi sono, appunto, dolori come questo. Un racconto quasi elegiaco, una figlia adolescente che non potrà crescere e un padre, semplice e tenace contadino della Louisiana che, forse, si illude di poter sottrarre la sua bambina a ciò che sa bene essere un inevitabile destino. E poi, il tempo. Qui, a differenza di altri film a tematica zombie, non si muore in fretta, non si viene dilaniati. Ma ci si allontana piano piano, la pelle diventa necrotica, gli occhi perdono i colori dell’iride e va altrove. E forse è anche questo a rendere tutto più terribile.
Un film davvero sorprendente, opera prima del regista Herry Hobson e di cui Schwarzenegger è anche produttore che, presentato al Tribeca Film Festival nel 2015, ha dimostrato come un certo cinema indipendente possa realizzare qualcosa in modo originale anche all’interno di un panorama di genere spesso uniformato. Se pensate che sia impossibile restare un po’ impietriti da un soffio di malinconia guardando un film con Schwarzenegger allora dovete proprio concedervi la visione di questa pellicola.
Postapocalittico
2015