Un romanzo verità, un reportage, una testimonianza in presa diretta di una storia di lavoro, di lavoro che non c’è più, di disperazione ma anche tanto orgoglio e dignità. Questo, e molto altro, è il libro di Angelo Ferracuti Addio pubblicato da Chiarelettere. Un viaggio in quella terra di Sardegna, nello specifico il Sulcis-Iglesiente tra macerie che non sono solo fisiche ma anche sociali e umane. Un romanzo verità che ci racconta in modo quasi documentaristico cosa accade quando, colpevolmente, capitale e politica lasciano che si allarghi la drammatica contraddizione tra salute e lavoro.
Ferracuti viaggia all’interno di queste terre, armato di taccuino e studia, parla con le persone, interroga e si interroga dando voce a chi, in quelle terre ha lasciato una fetta importante della propria vita. Perché anche qui parlare di lavoro e parlare di vita sono inevitabilmente la stessa cosa. Un libro che nasce da due anni di lavoro tra Iglesiente, Sulcis, Carbonia, Iglesias per raccontarci qualcosa che sa di epica, quell’epica dei minatori che è difficile raccontare senza cadere nella retorica. Ma Ferracuti ci riesce proprio perché la sua è una testimonianza che ci arriva attraverso le voci di quei minatori, di quegli operai. Voci vive in mezzo alla desolazione di miniere che non ci sono più, scheletri metaforici e fisici di una violenza doppia: quella perpetrata da una classe politica sensibile solo allo spostamento dei voti e a multinazionali interessate solo al profitto.
Un reportage, doloroso, drammatico ma anche poetico questo libro che, già nel titolo “Addio” raconta la fine del lavoro, ma anche il sacrificio e le lotte di questi minatori. Operai annientati dalla chiusura delle miniere e dal declino di quello che era il polo industriale dell’alluminio. Speranze, aspettative, promesse di posti di lavoro che, come quasi sempre accade, restano lettera morta nel gioco cinico di delocalizzazioni, ristrutturazioni e profitti. Un atto d’accusa forte contro una classe politica incapace di visioni e progetti di largo respiro che va a braccetto con un’industria il cui unico scopo pare essere quello di spremere luoghi e persone fin quando conviene. Poi, ciò che accade poi, sembra non essere più di loro interesse.
Un viaggio geografico, quello di Ferracuti, ma anche storico, in un lembo d’Italia che è paradigma di una storia universale. Una storia che, in questo caso ha i nomi di Carbonia, fondata nel 1938 dal delirio autarchico del fascismo; di Iglesias con il suo passato ricco di miniere di zinco, rame, ferro che, agli inzi del ‘900 contava qualcosa come 15mila minatori; di quella multinazionale vista (copione che si ripete) come una salvatrice che però, a profitti calanti, delocalizza, se ne va lasciando solo malattie da inquinamento.
Una storia antica e nuova al contempo. Forse è questo il dolore che più prepotentemente sale dalle pagine di questo testo. E che più emerge dalle parole delle varie persone protagoniste di queste pagine: operai ma anche medici, un maestro Manlio Massole che diventa minatore per poter raccontare quasi con la carne cosa significa quel mestiere. Un dolore e un dramma che hanno il sapore malinconico e amaro di chi, persa ogni speranza, si da all’alcolismo e al suo potere di oblio, o si gioca tutto alle macchinette, ancora immergendosi nel canto delle sirene del gioco d’azzardo.
Un libro bellissimo e straziante, in cui viene raccontata anche la bellezza della Sardegna, il contrasto tra ciò che era la vita e la vitalità di alcune città prima e la desolazione di adesso. Una desolazione che è anche personale geografia umana, in cui la fine del lavoro è l’inizio di qualcosa d’altro che non si sa cosa sia. Ma si può pensare possa essere, comunque, un tradimento, prima di tutto. Tradimento di chi ha colpevolmente giocato sulla pelle sporca di fuliggine di quei minatori, di quegli operai e delle loro famiglie.
Da leggere assolutamente
Romanzo verità
Chiarelettere
2016
242