Ho già collocato “Miami”, capolavoro enorme, uno dei miei preferiti in assoluto, in questa Rubrica. Il 13 marzo 1996 veniva a mancare, nel sonno, per emorragia cerebrale, Jeffrey Lee Pierce (36 anni compiuti) che di quella magica band era il leader indiscutibile e carismatico. “The Las Vegas story”, pur distante da quelle vette inarrivabili, è ancora un capolavoro, seppure da taluno sottovalutato, degnissimo di far parte di questo plotone di dischi irrinunciabili che ho chiamato “I Monoliti” della storia del rock. Sono già 21 anni che Jeffrey non è più sulla terra. Oggi avrebbe quasi 60 anni. Le sue canzoni risuonano nel vento e vengono reinterpretate da tantissime band attuali . Mark Lanegan, per esempio, ex vocalist degli Screaming Trees di Ellensburg, nello stato di Washington, ne ha fatto svariate versioni. Lui è un grande cantante dalla voce cartavetrata, che pare aver smarrito in questi ultimi anni la lucidità che aveva prima. Ma torniamo ai Gun Club. Kid “Congo” Powers (pure coi Cramps) è alle chitarre, assieme a Pierce, Patricia Morrison, moglie di Dave Vanian dei Damned, è al basso e Terry Graham, immarcescibile, alla batteria. Pierce compone, ancora una volta, una manciata di canzoni che fanno venire i brividi, stavolta più virate verso un country rock slabbrato e polveroso che non si dimentica! Una foschia fitta ed asfissiante prende corpo fin da “Walking with the beast” (amminando con la bestia: ce l’aveva forse col diavolo?). Non aspettiamoci più gli spasmi incontenibili di “Miami”, ma un suono più regolare, più strutturato, meno velenoso, anche se sempre molto polemico con lo stile di vita americano. Sempre un capolavoro eccellente, cui manca solo la cattiveria del suo “fratello” precedente, perversa ed irreversibile, ma siamo sempre a livelli altissimi: 11 selezioni per 38 minuti e 50 secondi da vivere intensamente. “This is Las Vegas Story ” recita e , poi via con , “Walking with the beast”, con le due chitarre affamate di elettricità e la sua voce forte e potente, sempre pronta a scatenarsi, come un dobermann che strattona il guinzaglio…”Eternally is here”, con la slide di Kid Congo che si lamenta sotto, mentre lui utilizza un bisturi affilatissimo per trapassarci le budella. Voce unica, incomparabile in un rock che, invece, ha smarrito oggi tutto, a partire dalle unghie, che lui aveva affilatissime, così come la sua chitarra che qui impazza letteralmente, facendoci saltar sui dalla sedia, così come questi continui cambi di tempo e tonalità. “The stranger in our town” ed i peli ti si rizzano sulla schiena. Questa chitarra che arpeggia con maestria unica e la sua voce dispari, inimitabile. Congo Powers sferza la sua sei corde, tirandoci fuori onde elettromagnetiche inesauribili, accelerazioni belluine e metalliche, con sovrapposizioni da paura di tutto, compresa la batteria del buon Graham. Spazio a due chitarre, due manici della Madonna, che ti comprimono la bocca, non facendoti respirare. Capolavoro enorme ! Il suo modo di cantare andrebbe fatto sentire a tutti questi pseudo “soffiator vocali” di oggi, Mi si parla di Eddie Vedder dei Pearl Jam, di Bono e paccottiglia varia, ma per favore! Canto disperato di un loner. “My dreams”, ancora fortemente chitarristica e, finalmente, col basso della Morrison più corposo, scorre unitaria e ipnotica. Vuole restare compressa appositamente. “The master plan” dura il battito di ciglia. Pianistica è la stravolta “My man’s gone now”, dove Jeffrey dà quasi l’impressione di voler stonare. Blues dilatato, ma luciferino. “Bad America”, eh sì, è una Cattiva America quella che quest’anima nera ci dipinge davanti agli occhi. Con le chitarre che sono due carrozze sferraglianti, col ferro che sprizza scintille autentiche di disperazione per la sorte di tutti gli emarginati (e sono milioni) nel grasso e grosso territorio yankee per il quale Jeffrey non aveva alcuna misericordia. Si resta a bocca aperta. Per la musica, per questa voce che corrisponde alle urla di una donna presa per i capelli. Non c’è pietà in questo rock polveroso e di frontiera. Gli speroni ti si incassano nelle carni e fanno male! Eterno, nuovo capolavoro che non ti fa dormire. Nessuno mai più come Jeffrey, come drammaticità. E purezza. “Moonlight Motel” è una cavalcata che solo loro…”A scalare”, sui bassi, ma con le due solite chitarre fulminanti, ed una ritmica serrata. Ancora una stoccata indimenticabile. L’ultimo capolavoro del disco è “Give up the sun”. Per lui che aveva sangue pellerossa, pare provenire dalle praterie dove i suoi antenati cavalcavano cavalli pezzati e senza sella. Ma ascoltate come pronuncia il titolo del brano ! La slide di Powers lavora con ago e filo instancabilmente, mentre lui canta da par suo su tempi e toni in continuo mutamento. “Secret fires” è talmente triste da scoperchiarti il cuore. E’ l’urlo, il lamento di un coyote nella sterminata distesa di terre al chiaror della luna, muta nel cielo. Che dire? La slide dà i brividi, la sua chitarra acustica ci ricama sopra e noi andiamo in fumo, per sempre.
Non c’erano stati termini di paragone prima di loro, durante, e neppure oggi, ai nostri tempi sventurati odierni. Poesia autentica selvatica e schietta. Non si crea né si suona più. Lasciateceli così, ogni volta che li riponiamo nel lettore, la leggenda, come un esile fumo, riprende vita. GUN CLUB=I MIGLIORI DI SEMPRE. Jeffrey per sempre nella mia testa e nel mio cuore. Riposa in pace.
Rock
1984