Se mi tornassi questa sera accanto, l’ultimo libro di Carmen Pellegrino, è uno di quei testi da cui è molto, molto difficile uscire. Tante sono le nervature che va a toccare, le parole che risuonano in qualunque animo un po’ dolente, le note tragiche e leggere che si alternano. Come la vita. E, come la vita, spesso ti racconta qualcosa di diverso da quello che ti illudi di aver capito. Qui, quel qualcosa di diverso, comincia dal titolo, con quelle meravigliose parole di una poesia di Alfonso Gatto che il poeta dedicò a suo padre. Che invece, almeno per me, fanno da titolo ad un libro che è tra i più belli e potenti esempi di elegia del mito della madre. Non della mamma, la Nora del libro, ma proprio della madre. Che è accoglienza anche quando sembra respingerci, che è malinteso e dunque apertura. Carmen Pellegrino, con questo libro, scrive il mito della madre che si può trovare solo nella parola e non nella genealogia.
Se mi tornassi questa sera accanto è un inno alla parola, alla sua straordinaria capacità di creare le cose, di raccontarle e di raccontarcele. Perché, come diceva un altrettanto bel titolo di un libro di Paolo Nori Le cose non sono le cose, tutto forse dipende da come ce le raccontiamo, da come andiamo a strapparle ai ricordi, anche e soprattutto quelli che fanno più male. E da come crediamo di allontanarci non parlandoci più e da come ci riavviciniamo ricominciando, prima di tutto, a parlarci.
Giosuè affida il suo andare oltre l’impossibilità proprio alle parole, quelle scritte, di tante lettere, che invia ostinatamente a Lulù. Una figlia lontana, forse, allontanata, che non risponde fino a quando non sarà pronta a farlo. E lo farà, appunto, recuperando, una parola: riconciliazione. Ma anche in questo caso questo libro ci insegna qualcosa. Riconciliazione non è ritrovarsi identici, sovrapposti all’immagine che di noi l’altro si è fatto. Tutt’altro. Riconciliazione è accettazione. E ancora una volta è curioso e potente l’inaspettato: che a aiutare Lulù a capire la portata di questa parola sia un uomo. E questo è il mito della madre che nulla ha a che fare né con la genealogia, come dicevamo prima, né con il sesso.
Giosuè, il padre, la legge, il desiderio di controllo che è l’altra faccia della paura di perderlo. Nora, la madre, lontana, perduta (ma forse no) per un male di vivere che la pietrifica nel viso ma non nel cuore, anche se sembra così. Eppure questa donna è capace di un amore profondo proprio perché, lei, il controllo lo ha già perso. E dunque ama, anche quando non sembra, anche quando non si comporta come ci si aspetta che si comporti una mamma. Ama con le parole, anche se Lulù lo capirà dopo; con le parole invisibili di fogli scritti con il succo di limone, con cui Nora aveva voluto creare un legame con la figlia. Al di là di quello che ci si aspetta e al di là di quello che si credeva di fare. In questo libro emerge forte e struggente come l’amore sia un atto mancato.
E attorno a tutto un fiume, l’acqua, i sogni, le sconfitte, le rinunce, le piccole grandi violenze che sono inevitabili in qualunque lessico familiare. Questo, anche questo è l’ultimo meraviglioso libro di Carmen Pellegrino. Pagine in cui viene cercata la parola salvifica, quella che può cambiare il corso delle cose. E mi viene in mente quando, da piccola, andavo in chiesa per ascoltare la messa, aspettando in realtà solo un momento: quello in cui il prete pronunciava la frase “ma di soltanto una parola e io sarò salvato”. Questa la madre nella parola, indipendentemente da chi la pronuncia. E questa la madre che, forse, Lulù incontra nel suo divenire donna.
Un libro che sembra cesellato in una lingua arcaica, che restituisce personaggi che paiono antichi (con tutto il carico potente e nobile di questa parola) scolpiti in sentimenti e passioni che ci arrivano come da un altro tempo. E che, ad un certo punto ti riporta all’oggi perché si nominano oggetti come il computer, luoghi virtuali come facebook, pale eoliche. Quasi ci fosse un controcanto temporale, straniante e sorprendente che ti porta avanti e indietro nel tempo.
Carmen Pellegrino ha, per me almeno, fatto prima di tutto un enorme lavoro sulle parole, sulla lingua. Restituendoci la complessità della semplicità. Che non è mai punto di partenza ma, al contrario, punto d’arrivo di un lungo e doloroso lavoro. Doloroso muoversi in mezzo ai sentimenti tanto quanto dolore è trovare le parole per narrarli e, quindi, viverli ed elaborarli. Una lettura straordinaria, un libro importante mi viene da dire. Da leggere assolutamente.
Letteratura
Giunti
2017
231