L’Inghilterra delle industrie e delle fabbriche fumanti come panorama. Nella metà degli anni Settanta si estremizza il concetto di canzone manifestando una nuova disperazione sociale. Incappiamo in depressioni e vite tormentate. Viene attuata una dissacrante contestazione ai canoni sociali e artistici. Con “Metal Box” dei PIL (1979) ci si distacca definitivamente dagli schemi prolissi di prog e jazz. Anche prima di questo lavoro ci sono episodi di alto livello, come la miscela funky afro nevrotica di “Y” dei Pop Group, la wave jazzata dei Tuxedomoon, i Cabaret Voltaire di “Mix Up” e i Throbbing Gristle. Seminali a dir poco. I live di questi gruppi sono delle luminose proiezioni dadaiste futuriste dove, improvvisando per ore, si narcotizza completamente orecchio e mente dei presenti. Nel 1980, a Sheffield, si formano i Clock DVA di Adi Newton e Steven Turner. Loro sono influenzati dai suoni citati pocanzi e dall’unione dell’avanguardia con le arti visive. Il clima che si respira in quel periodo è a dir poco eccitante. I Clock, con l’aggiunta di Paul Widger (chitarra), Charlie Collins (sax) e Roger Quail (batteria), riprendono il jazz più lancinante e squillante con un mood decisamente lugubre. Si rende il suono minimale, rarefatto, ma allo stesso tempo nevrotico, arcigno. Il primo lavoro “White Souls In Black Suits” esce nel dicembre del 1980. I brani superano i cinque minuti di durata e si dilungano in dialoghi tra sax, batteria e chitarra acida, senza scendere in eccessivi manierismi. “Consent”, “Discontentment”, “Relentless” e “Non” sono caratterizzati da queste connotazioni. Si frantuma il riff portante e ci si concentra nell’accostare le improvvisazioni jazz con le strutture prossime dell’industrial. Questo esordio risulta in alcuni tratti ancora acerbo, anche se è del tutto serena la volontà di creare suoni anticonvenzionali arricchiti lentamente dagli squittii del sax e dai watt saturi della chitarra (il free jazz industriale di “Contradict” e “Anti Chance”). E’ come se il sound fosse scisso in piccolissime particelle che, con l’andare avanti della jam, riescono a disegnare il volto del brano. Insomma, un contenitore che possiede il “vecchio” e il “nuovo”. Dopo questo primo lavoro troviamo il bellissimo “Thirst”, che testa una crescente ispirazione/maturazione grazie a “4 Hours” e “Uncertain”. Pensate che non ci sia l’album della consacrazione?! Ecco il 1983 di “Advantage” e dei suoi balletti noir con “Tortured Heroine”, “Resistance”, “Beautiful In Paris” e “Dark Encounter”. Dopo questo sussulto abbiamo vari anni di silenzio, fino ad arrivare nel 1989 con un piatto inaspettatamente innovativo: la danza cyborg di “Buried Dreams”, pregna di industrial spinta, campionamenti e martellanti drum machine. “Electronically yours”, come dicevano gli Human League…
Industrial rock
1980