Gli anni Novanta, personalmente, non rappresentano più il grunge di Seattle, troppo banale ormai e poco fantasioso. A detta di molti, “Spiderland” degli Slint incarna gloriosamente l’apice della concezione di questa decade. Forse “Loveless” degli irlandesi My Bloody Valentine riesce in modo più totalizzante a segnare la chiusura di un corso e di inaugurarne l’inizio di un altro. L’estro lungimirante della band che si era mostrato già chiaramente nell’esordio “Isn’t Anything”, ossia lo scioglimento della melodia Beat nell’acido del fuzz carico di watt, viene concretizzato definitivamente in questo punto di non ritorno. Cosa viene dopo “Loveless”? Niente. E’ esattamente quel tipo di lavoro che trasmette la sensazione di vuoto assoluto aldilà di esso. La bravura dei My Bloody Valentine è nel non presentarsi come una band clone, periodo quello della fine degli anni Ottanta infestato da band meteora, e di aver sgamato una linea personale da innalzare come esempio. “Loveless” è sprecato per essere appeso in cameretta come poster. E’ inutile risuonarlo guardando i tutorial di youtube per svelare i mille trucchi nei pedali. E’ semplicemente da ammirare. Lo shoegaze, del resto, può essere rappresentato da molti gruppi, come gli Slowdive, i Jesus & Mary Chain o i Ride. E’ una scatola contenente molte realtà, con il solo difetto di rasentare quasi sempre lo stesso ambient. Come il punk, che viene sintetizzato in “quattro accordi e caciara”, lo shoegaze rischia di riconoscersi in “watt a palla e mille effetti”. Dietro il muro di suono disumano prende forma lentamente il disegno. La voce sussurrata, eterea, difficile da scorgere in mezzo al frastuono, sono le caratteristiche peculiari. Nel 1991 si viene a contatto con una eccessiva quantità di musica, la maggior parte di essa dedita alle classifiche, al mainstream e al video da far girare ogni due ore su MTV. Da questo periodo in poi si assiste definitivamente all’annullamento del post punk e della new wave di inizio Ottanta e si fatica a sorreggere l’impalcatura industrial e noise dei Sonic Youth. Anzi, proprio quest’ultimo genere è dove si colloca di fatto lo shoegaze. Quindi a ravvivare la situazione, colorata dalle case discografiche mangiasoldi, ci pensano Kevin Shields (chitarra e voce) Bilinda Butcher (voce e chitarra), Debbie Googe (basso) e Colm O’Ciosoig (batteria); loro sono i My Bloody Valentine e il biglietto perfetto per conoscere il sound è la sensazionale “Only Shallow”, la traccia d’apertura. Qui ci accolgono immediatamente zuccherose sognanti linee vocali di Blinda sposate perfettamente con gli arcigni feedback della chitarra di Kevin. Esaltazione che persiste con il vortice infinito di “To Here Knows When”, ninnananna acida dove la voce appare e scompare in mezzo al colossale wall of sound, e la maestosa “Sometimes”, ballata drogata che fa scomodare i vari Lennon e Reed e che meriterebbe una menzione a parte in quanto brano simbolo. Pioggia di chitarra sopra il cielo di voce steso dal divino Kevin Shields. Altri elogi considerevoli li meritano le varie “When You Sleep”, il brano che i Verdena cercano ahimè invano da “Wow” in poi, e l’incontro del raga rock con la cultura rave nei sette minuti di “Soon”. Momenti interessanti sono le Beatlesiane “I Only Said” (con una memorabile linea di chitarra) e “I Come Alone”, come del resto il dream pop stile Cocteau Twins di “Blown A Wish” e le ritmiche quadrate di “What You Want”, dove riappare il mood dell’esordio. Tutto ciò partorito nel 1991, quando le ragazze avevano quei deliziosi capelli a caschetto e i ragazzi le camicione e i jeans a vita alta. E cosa abbiamo nel multi tecnologico 2017? Se si ama “Loveless” non si cerca altro, del resto.
Irish rock
1991