Uno dei due capolavori assoluti dei Cure (l’altro è “Pornography”, di due anni successivo: io preferisco questo), “Seventeen seconds” edito all’inizio degli anni Ottanta. Un gruppo di giovanissimi, capaci di mettere su carta una musica così adulta, ma così adulta da dare da pensare alle attuali generazioni di bamboccioni-choosie. Le cose da allora, quanto a maturità, estro ed inventiva sono andate a precipizio verso la cantina. Robert Smith ha raccontato di avere composto tutto il materiale del disco in una sola notte. Simon Gallup è subentrato a Dempsey al basso ed il basso è uno dei protagonisti assoluti del prodotto. Un basso gommoso, pulsante, nodoso, che sostiene sia il cantato di Smith, sia le entrate lisergiche delle tastiere qui presenti per l’unica volta con un quarto componente, Mathieu Hartley, subito mandato via, nonostante avesse suonato più che bene, ma i Cure, come tantissime altre band, il meglio di sé l’hanno dato come trio. Robert è ancora giovanissimo (ventitreenne neppure), non porta ancora il rossetto di sangue sulle labbra e non è certo l’icona rock che sarebbe diventata da lì a qualche anno. Questo è un altro dei dischi da portare su un’isola deserta e da ascoltare in continuazione. La batteria, spesso elettronica, di Lol Tolhurst dà delle autentiche frustate al suono complessivo, indirizzandolo verso debordi e rientri formidabili rispetto ai temi sonori principali. E’ come l’accelerazione ulteriore data in corsa ad un motore già su di giri. Ma il tutto è rivestito di quella tristezza, malinconia che gente così giovane non avrebbe dovuto avere in quel periodo. E’ la classica malattia di vivere. E’ la nebbia, quella nebbiolina tipica delle brughiere inglesi, di quei boschi attraverso i quali faticano a farsi spazio persino gli esili barbagli di luce dell’alba e del tramonto, la vera protagonista dell’incisione. Resta addosso, al termine dell’ascolto, una patina incredibile di umido, creata dalla vena ispirativa di Smith e dalle esecuzioni perfette della band. Qualcuno ha parlato di disco creato a coppie di brani, avvicinando la verve scattosa di “Paly for today” alle cristalline piramidi di vetro fragilissimo della strumentale “M” (magistrale!), con una chitarra da ascoltare nel silenzio più assoluto, oppure gli ectoplasmi vocali di “Secrets” e la finta virilità della battente “Three”, con questa batteria massiccia eppure stranamente fragile. E che dire del liquido andare ipnotico della circolare “In your house “, che potrebbe durare all’infinito, facendoti perdere nei meandri di un animo inquieto e che non vuole tornare in superficie e vedere di nuovo la luce, accostata alla costruzione inestricabile di ragnatele della ringhiante, come suono alla chitarra, “At night”, da cui si fatica ad uscire, via via che il suono, che proviene dal basso si fa strada e diventa sempre più nitido e palpabile e quella voce che è poco più di un gemito disperato, a ricordare gli incubi della notte, da cui a stento ci si riprende, con uno strato di sudore gelido addosso? Ed ancora, la title track, che appare quasi svogliata nella sua normale bellezza ed “A forest”, altro capolavoro, sarà il quinto o sesto del disco, che sparge una fitta condensa come quando sul parabrezza dell’auto non vedi più, dopo avere scollinato una zona particolarmente umida durante un viaggio di mattina presto e devi aiutarti con i tergicristalli e con l’area nell’abitacolo!
Solennità nebulose, sintetizzatori ficcanti, questo rigore spartano della chitarra, i tempi metronomici di basso e batteria, tutto è perfetto in questo capolavoro. New Wave inglese che dominava il mondo (Talking Heads a parte) | I Cure di Robert Smith camminano a passi lenti per boschi fatati e pericolosi, regalano ritmi che lentamente si fanno cadenzati, freddi, oserei dire quasi implacabili, tirano su il bavero del loro cappotto sdrucito ed affidano al destino le loro sorti di mortali. Atmosfere da “IL MASTINO DEI BASKERVILLE” di Sir Arthur Conan Doyle , l’inventore di Sherlock Holmes. Oramai la sorpresa del disco iniziale “Three imaginary boys” è fulgida realtà e noi tutti là stupiti a meditare sulla stordente futilità dell’esistenza umana. God bless Cure !
Uno dei più bei dischi di sempre.
IL FALCO.
New wave
1980