I Talk Talk se avessero terminato la carriera con “The Colour Of Spring”, album del 1986, li avremmo accostati inevitabilmente a “Such A Shame” e “It’s My Life”. L’album citato, nonostante abbia una maturazione nelle composizioni, un sound più ricercato e influenze pseudo jazz, non è la fine della storia. Da qui in avanti ci sono due anni di stop e un ritorno miracoloso, inaspettato.
C’è da dire che si intravedeva da subito che Mark Hollis non fosse un leader piacione, ammiccante ed egocentrico. Tutt’altro. Personalità schiva, timida, riservata, il classico artista alienato, visionario e rinchiuso volutamente nel suo mondo. Nella sfera musicale generale si sta osservando il tramonto della prolificità new wave/post punk, sostituita dal noise/revival psichedelico (Flaming Lips, Mercury Rev, Sonic Youth, Mudhoney, Butthole Surfer, Big Black).
Nel 1988 ci si imbatte in un periodo cruciale: o si genera un’altra “moda intelligente”, come lo era stato il post punk, o veniamo divorati dalla musica “usa e getta”. Il nuovo panorama interessante viene suggerito proprio dai Talk Talk. Avete presente i vari Mogwai, Tortoise, Slint, Low, Codeine e Bark Psychosis? Questi bravi ragazzetti seguono con un ritratto del tutto personale la scia delle sei tracce contenute in “Spirit Of Eden”.
L’album si presenta come un dipinto naif dai colori soffusi, ma con qualche pennellata più accesa che delinea decisamente il contorno. Lo schema della trance viene condito da droni, rumori di sottofondo, effetti che emulano i suoni naturalistici e linee vocali scandite quasi sottovoce. E’ tutto affascinante e così unico. Un vero miracolo.
“Osservo la natura da un panorama. Osservo la lontananza, le sfumature, i giochi delle simmetrie. Alla fine di questo gioco, concepisco ciò che vedo stratificando la visione. E’ tutto sovrapposto”
“The Rainbow” è l’archetipo della nuova concezione: ripiombano gli echi dei King Crimson del periodo “Islands”, di Miles Davis e dei Weather Report dei primi due dischi. La tromba e l’elettronica sono gli elementi che portano avanti il fluxus per tre minuti, prima di dare il via al sonnambulo groove di chitarra, alle frasi del piano e alla voce soffusa di Mark Hollis.
“Cerchio gommoso, fascio di luce, senza sapore”
Uno spiraglio di luce giunge fugace con “Eden”, ritmo che non ha fretta di decollare nella miriade di sfumature jazz, gospel e soul. Il ritornello, se così vogliamo chiamarlo, visto l’annullamento delle strutture standard, vede un colossale Hollis trasformarsi in uno sciamano profetico, trascendentale, appartenente a un’altra dimensione. Il pathos che si raggiunge nella frase “Everybody needs someone to live by, rage on omnipotent” annuncia il mood minimale di “Desire”, altro vertice indiscusso. Nonostante i fantasmi iniziali ci imbattiamo in una prestazione ai limiti del noise, con tanto di armonica e percussioni da savana.
“Tocco il colore. Il giallo, il verde, il blu. Seziono la visuale. Sposto la sguardo facendo finta che ogni piccola parte della panoramica del mio sguardo sia un acquarello.”
“Inheritance” è una preghiera a tratti desolata, speranzosa, visionaria. Intro solenne e sacrale smorzato dall’impatto evocativo decorato dalla miscela strumentale/vocale, sublime alchimia che sprigiona profumi e immagini. Non posso tralasciare l’ultima frase, posta come firma allo spettacolo: “Heaven bless you” giunge come una benedizione, una carezza, un bacio. Eleganza stratosferica.
“L’uomo è nulla in confronto alla natura. L’uomo si distrugge.”
Addentrati ormai in questo paradiso terrestre, si giunge all’immensa “I Believe In You, una specie di risposta alla “I Don’t Believe In You” del disco precedente, ma dotata di un altro fascino e valore. Lo stilema è il classico: sfumate sonorità colpite al cuore dalla verve di Hollis, che ancora una volta entra a contatto perfettamente con la mente e l’orecchio. Qui, a differenza delle altre tracce, nel ritornello si persiste nel nome del minimalismo con un soffuso hammond e quel commovente “Spirit” sussurrato da Mark.
“Ogni persona consegna un profumo particolare alla propria vita. Ciò che vivo fa parte di un’altro presente, di un altro oggi. Poi si ripiega in sè stesso. E ricompare.”
L’organo nebbioso della meditativa “Wealth” conclude il capolavoro senza far rumore, senza dover strillare, in perfetto stile Talk Talk. Da qui in avanti tutto sarà diverso, e se vogliamo, anche più facile. “Spirit Of Eden” è la Bibbia per il futuro, consapevole di simboleggiare eternamente il futuro stesso.
“Il futuro è connesso al recettore. Lentamente prende forma, il disegno. Come deve andare. Deve. Andare.”
Purtroppo la scena degli anni Novanta è colorata da alcuni picchi apprezzabili, come “Spiderland” degli Slint o “Hex” dei Bark Psychosis, ma imbottita eccessivamente di copia e incolla o combinazioni non troppo esaltanti con il trip hop. L’impegno c’è stato, ma giunti nel 2017 credo che l’eco del post rock sia terminato e che i mostri sacri non siano stati superati. Un motivo forse c’è.
New wave
1988