Se pensate che il mestiere dell’agente segreto e il mestiere dello scrittore non abbiano nulla in comune allora, forse, potreste prendere in mano Ashenden o l’agente inglese di W. Somerset Maugham. E non solo perché, anche se sono in pochi a saperlo, lo scrittore fu davvero un agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. Questo sarebbe solo un “dettaglio” biografico che fa da cornice a questo testo. In realtà, chissà se voluto o meno, è lo stesso Maugham a introdurre alcuni elementi di riflessione su questa ipotesi. Fin dalle pagine iniziali, nella prefazione, lo scrittore ci regala non pochi elementi al riguardo: “La realtà è una novelliera mediocre: comincia una storia a casaccio, generalmente molto prima dell’inizio, procede tra divagazioni incongrue, e termina lasciando una quantità di cose in sospeso, senza una conclusione […] Secondo una certa scuola di romanzieri, questo è il modello proprio della narrazione.”
Infondo sembra esattamente il lavoro dell’agente segreto, o almeno dell’agente segreto raccontato in questo libro. Un libro che ha la struttura, più che del romanzo, di scene, episodi senza una trama vera e propria. “Il lavoro di un agente segreto è nel complesso quanto mai monotono. In buona parte è di straordinaria inutilità. Il materiale che offre per racconto è scucito e infecondo: tocca all’autore renderlo coerente, drammatico e probabile.” Leggendo i due passaggi pare davvero di trovarsi tra le mani qualcosa che può valere per entrambi, la spia e lo scrittore. Del resto lo scrittore, come la spia, fanno tanto meglio il loro lavoro quanto più si rendono invisibili. Quanto meno si avverte la loro presenza. Spia e scrittore, non hanno, spesso, una visione d’insieme del loro lavoro, come se sapessero solo che devono maneggiare parti singole del tutto per poi, forse, darne una lettura più ampia ma solo a posteriori.
Sembra essere ancora lo stesso Maugham a darci una chiave di lettura del libro quando scrive: “L’asserzione che la narrativa deve imitare la vita non è un assioma, e non siamo obbligati a considerarla tale. Una teoria come un’altra. C’è una seconda teoria altrettanto plausibile, ed è che la narrativa usa la vita come materia grezza, da disporre in un disegno ingegnoso.”
Partendo da tutto ciò, Maugham confeziona una spy story in cui non assistiamo a episodi truculenti e neanche particolarmente emozionanti. Non a caso la storia è ambientata in Svizzera, paese probabilmente scelto per la sua neutralità e per, appunto, agire nell’economia della storia come elemento stereotipico ma, al contempo, capace di sorprendere. In realtà la Svizzera nel libro pare essere tutt’altro che un paese in cui non accade nulla. Ma Ahneden vi è stato mandato proprio perché, essendo uno scrittore (sì, anche nel libro) deve avere come copertura una convalescenza da cui riprendersi e il bisogno di tranquillità per scrivere. E tutto, così, sembra tenersi. Il cerchio si chiude.
Forse proprio con la capacità di mimetizzarsi della spia, Maugham è in questo libro, scrittore preciso, distaccato, ma mai freddo. Con eleganza descrive e caratterizza i vari personaggi. Rubando informazioni (proprio come fa una spia) per potercele restituire in una storia. Un libro in cui, come una spia che porta informazioni da un paese all’altro, lo scrittore porta dettagli da un personaggio all’altro per rendere la realtà verosimile. E, pur essendo opera di fantasia, lascia sempre il dubbio che Maugham ci stia raccontando un vissuto, preciso, non narrativo. Complice anche lo stile in cui l’acutezza si unisce alla capacità di analisi psicologica, restituendoci una sottile critica della follia degli uomini durante la guerra ma, nello stesso tempo una profonda comprensione dell’animo umano. Senza alcun giudizio.
Ed ecco un libro che si regge senza una trama apparente. La cosa più difficile per uno scrittore. A mio parere questo Ashenden o l’agente inglese è una lettura imprescindibile per capire il mestiere di scrivere e un forse inconscio atto d’amore nei confronti della capacità della letteratura di dare un senso a ciò che sembra non averne
Letteratura inglese
Adelphi
2008
277