La ricerca sull’identità di alcuni scrittori è cosa che, da sempre, si ripresenta regolarmente nella storia della letteratura. Il bisogno di dare dati anagrafici e biografici certi sembra essere un’indispensabile indagine parallela a quella filologia o semiologica. E, spesso, lo è, per ricostruire un palinsesto certo di elementi di veridicità storica.
Uno scrittore su cui tanto si è dibattuto per stabilirne l’identità è sicuramente William Shakespeare, il Bardo. La questione non è così oziosa come potrebbe sembrare. Dare un nome, attribuire un’identità sono, in letteratura, qualcosa di più di meri “esercizi di stile” o palcoscenici per egotiche ricerche accademiche.
Talvolta diventano pretesto per scrivere romanzi che sono declinazioni sapienti e gustose dell’arte di scrivere e di fare letteratura come in un gioco di specchi. Come accade con questo Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio, romanzo, saggio, spy story, mix di barocca eleganza siciliana e ricerca filologica. Un intreccio di intrecci per far viaggiare una domanda, un dubbio: e se Shakespeare fosse, in realtà, italiano, anzi di più, siciliano?
Due elementi vorrei chiarire di questa mia frase. Ho scritto “fosse” e non “fosse stato” e ho scritto “italiano, anzi di più, siciliano” e non a caso. Ma per mettere in luce due chiavi di lettura di questo libro ovverosia la “contemporaneità” della questione del nome (che nel caso di Shakespeare mai avrà un punto di arrivo) e la sicilianità non tanto di stile di questo testo ma di generale attitudine, magnificamente resa dall’espediente di presentarci il protagonista narrante (scrittore anch’egli) impegnato in una ricerca su sull’uroboro e la circolarità del tempo.
Quella che è una seria ipotesi diviene in questo Manoscritto di Shakespeare una storia nella storia. Un maestro elementare, in un immaginario paese siciliano, è certo di avere le prove del fatto che Shakespeare fosse italiano. Ma il maestro, l’anziano Perdepane, è persona dalla vita difficile, ridicolizzato da una moglie troppo ignorante per comprendere la sua passione e più impegnata a mettere in cattiva luce il marito che non a sostenerlo nelle sue ricerche. Perdepane ha bisogno di qualcuno che si faccia custode, testimone e narratore di questa storia. Chi? L’affermato scrittore protagonista del libro. E in un mirabolante passaggio di consegne metaforico (e non solo) i dubbi sull’identità di uno scrittore diventano materia (e non solo) della missione di un altro scrittore.
Nel corso di una serie di incontri tra i due, veniamo piano piano immersi nella vita di Perdepane e negli episodi che lo hanno portato ad entrare in possesso del libricino di aforismi da cui tutto ha origine. Seminerio inizia così a raccontarci una storia a sua volta basata sullo studio di Martino Iuvara intitolato Shakespeare era italiano. C’era una volta un tale Michelangelo Florio, nato a Messina. L’inquisizione lo costrinse a scappare e a trovar rifugio in Veneto, dove compì i suoi studi. Un rosario di nomi, di incontri fanno da cornice alla vita di questo “sconosciuto”: Giordano Bruno, Rosengrantz e Guildestern. Ma non voglio raccontarvi oltre perché davvero è gustoso assai immergersi nella lettura di questo libro.
E, in sottofondo arrivano echi di altra “sicilianità” letteraria con sentori di Verga, di Sciascia e, forte e chiaro, Pirandello. Ma arrivano anche discreti colpi d’ascia sulla mafia e su una mentalità mafiosa che ammanta di sé tantissimi meandri della vita dell’isola. Non a caso, Seminerio, in un breve frammento di descrizione di un piccolo boss locale, sottolinea come quel tipo di potere abbia bisogno di “un’isolata autarchia”.
E qui, attraverso il racconto della sparizione degli stessi manoscritti originali di Shakespeare, e del comportamento ambiguo delle autorità britanniche, è giocoforza trovarsi a pensare ad qualcosa che oltre che “isolata autarchia” è anche “isolana autarchia”; Sicilia e Inghilterra due isole sono ed è divertente rintracciare elementi di minuscola somiglianza in una abissale differenza.
Un libro che gioca anche in maniera sapiente con tutta una pletora di stereotipi sulla Sicilia e sui siciliani, introducendo anche qui ciò che, in fondo, è un po’ il filo rosso di tutto il libro e cioè il valore del dubbio. E della sua ancella più preziosa: la letteratura e i suoi infiniti giochi di specchi. Se ve lo siete perso quando è uscito il consiglio è quello di leggerlo ora.
Letteratura
Sellerio
2008
339