Wilcock. Tra illusione e critica nella sua Lubriano
La felicità di un artista sta nel concepire, come Lewis Carroll a ottant’anni, la vita alla stregua di un dialogo tra una tartaruga e un termometro.
J.R. Wilcock da “Illusione e critica”
Scolpire su pietra un’opera d’arte astratta, ammirarla e distruggerla con un martello. Cosa rimane? Un’opera distrutta, pezzi di niente. Frammenti. In un’operazione del genere è il martello, in questo caso la penna dell’autore, ad acquisire valore. E quella polvere che fluttua insieme ai frammenti, è la vera essenza delle cose. Perché tutto, prima o poi, è destinato a diventare polvere.
Per distruggere è necessario usare la stessa raffinatezza che viene usata per costruire. Ecco che si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte in continua evoluzione dove tutto è messo in discussione. Tutto è in continuo movimento come l’attività e la vita di questo artista, classico e moderno.
Tutto può crollare e tutto può essere edificato come nel caso de “Il tempio etrusco”. Non esistono certezze, esistono solo uomini in balia di loro stessi, delle loro certezze e delle loro contraddizioni.
In questo modo Juan Rodolfo Wilcock (Buenos Aires, 1919-Lubriano, 1978) stimola nel lettore la capacità di interiorizzare l’opera sviluppando un forte senso critico. Mai oggettivo, sempre personale.
C’è anche la prefazione che nega la prefazione. Esattamente tra il decimo e l’undicesimo episodio de “I due allegri indiani”, dove l’autore invita il lettore a non leggere mai più prefazioni evitando il condizionamento di altre realtà soggettive come fosse un virus da cui prendere le distanze. Evitare l’influenza altrui. La realtà è un’illusione. L’illusione può essere realtà.
Wilcock, un autore adottato dalla Tuscia. Morto il giorno del rapimento di Aldo Moro nella sua casa di Lubriano. Si era scelto un fazzoletto di terra con un piccolo casale affacciato sulla valle dei Calanchi. Una visuale tutta sua sulla città che muore. Di fronte alla consapevolezza che il mondo potrebbe crollare da un momento all’altro. Un luogo senza pensieri, subito dopo il cimitero dove la terra della valle è biancastra e dove nessun ponte collega la solitudine alla civiltà.
Wilcock l’ingegnere. Wilcock l’interprete e l’attore (sua la parte di Caifa ne “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini), Wilcock l’amico di Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges. Wilcock il critico, lo sperimentatore, l’autore, il traduttore… il poeta. E ancora l’argentino, l’italiano, l’inglese, il tedesco, il francese… L’apolide che ha vissuto la cultura nella sua totale e splendida dimensione cosmopolita. Di lingua in lingua (scelse l’italiano perché somigliava di più al latino). Di genere in genere. Postmoderno. Fuori dal canone, dallo spazio e dal tempo.
“Wilcock sa, prima di ogni altra cosa, sa da sempre sa per sempre, che non c’è altro che l’inferno. Non si propone neanche nel modo più vago e generico (come Calvino) l’ipotesi che ci sia qualcosa al di fuori di esso. Non si sogna neanche lontanamente che ci possa essere un modo, anche illusorio, di non soffrirne o almeno di ignorarlo”. Così Pier Paolo Pasolini commentando “La sinagoga degli iconoclasti”.
Per due motivi noti di carattere biologico (il sesso e la nutrizione) e per diversi motivi meno noti, di carattere tra l’istintivo e il patologico, siamo costretti a sopportare l’esistenza, la vicinanza e perfino il contatto di esseri contrari alla nostra ragione; questi esseri vengono genericamente chiamati gli altri.
J.R. Wilcock da “Illusione e critica”
Ogni parola nome di una cosa
è un nome singolare della morte
tranne la vita che non è parola.
La biblioteca di Alessandria arse,
insieme a un libro che narrava l’incendio
che arse la biblioteca di Alessandria.
Ogni orologio che fa l’orologiaio
è uno strumento per segnare l’ora
in cui dovrà fermarsi l’orologio.
J. R. Wilcock dal ciclo di poesie “La parola morte”
I libri di J. Rodolfo Wilcock sono pubblicati, in Italia, da Adelphi Edizioni