Era il 1968 quando uscì La notte dei morti viventi. Film a bassissimo budget, prodotto di un cinema indipendente che, proprio in un anno così emblematico, diventerà suo malgrado un cult. Lo stesso Romero, dopo un successo probabilmente inaspettato, scrisse: “Per la verità con La notte dei morti viventi non volevamo fare niente di più che un filmetto commerciale, esagerare con la violenza, ma una critica alla crisi sociale degli anni ’60? No, quello fu un caso. E invece, un paio di anni dopo la sua uscita un articolo sulla rivista francese Cahiers du Cinema lo definì un film fondamentale in quanto esempio di cinema radicale, una reazione all’intervento militare in Vietnam. Mi scoprii un autore socialmente impegnato e ci ho provato gusto. Hanno visto Zombi come una critica al consumismo, Il giorno degli zombie come uno studio del conflitto tra scienza e tecnologia bellica, La terra dei morti viventi come una disamina dei conflitti di classe. A me non è che me ne fregasse molto, ma già che c’ero, tramite gli zombie, mi divertivo a dire qualcosa su quello che stava succedendo in quel momento nella nostra società. Se avessi fatto dei film seri e importanti non avrei potuto dire tutte queste cose.”
Credo che, in queste parole, ci sia tutto Romero e tutta la forza di un certo modo di fare cinema. Un modo voluto e scelto ma i cui effetti e le cui interpretazioni sembrano essere del tutto arbitrarie. Arbitrarie ma non per questo non valide. Il cinema di Romero, che poi è un cinema dalla tematica ben “limitata” (che non è sinonimo di monotonia) è dunque divenuto, suo malgrado, un grimaldello per aprire porte che, non sarebbero probabilmente rimaste chiuse, ma che sarebbero state aperte con molta meno forza.
Fare qualcosa con un intento e ritrovarsi tra le mani qualcosa che può avere così tante letture può rivelarsi rischioso per un regista e per un autore in generale. Si rischia di rimanere impantanati in un clichè. Ma quando ci si diverte no. E Romero, come scrisse lui stesso, si divertiva e tanto. Forse proprio per quella libertà da interpretazioni preventive che il suo allora cinema indipendente gli ha consentito di mantenere. Diventando comunque un simbolo, assumendo di buon grado la definizione di “papà degli zombie”.
E così è stato effettivamente. Lo è stato perché, inevitabile il richiamo a lui (anche quando non dichiarato, anche quando solo da parte degli spettatori) ogni qualvolta ci si è trovati davanti un film che avesse la figura degli zombie per protagonisti. O come nel caso di una fortunatissima (e per me straordinaria) serie tv quale The walking dead.
Pur non essendo Romero l’inventore della figura dello zombie (che, lo ricordiamo, si rifà alla antica cultura voodo) ne è stato il “cantore” della loro somiglianza con tutti noi. E questo, forse, è uno dei motivi del suo successo e del suo esserne universalmente riconosciuto come “padre”. Lo zombie non è una creatura extraterrestre, non arriva da chissà dove. Ma è ciò che resta di un essere umano dopo aver perso, non solo la vita, ma il destino stesso di “uomo morto”. Curiosa forma di ribellione in esseri privi di capacità rivoluzionaria, anzi. Emblema del branco, privo di individualità. Non a caso gli zombie di Romero erano assolutamente innocui quando si muovevano da soli, pericolosi solo quando si muovevano in mandrie.
Creature “simili” a noi e, per questo, repellenti e attrattive al contempo. Il cui unico scopo (anche se scopo già suggerisce qualcosa di cosciente) o meglio, la cui unica spinta è quella di uccidere altri esseri umani per farli diventare come loro: morti viventi, uguali, omologati, senza coscienza, senza individualità. Facile così vedere nei film di Romero una feroce critica sociale, politica ed economica. Anche se, un certo tipo di lettura è, in effetti, possibile solo a posteriori. E ancor più oggi, epoca in cui gli effetti del turbocapitalismo e del conseguente autistico consumismo, sono sotto gli occhi di tutti. Non è un caso, direi, che nel corso dell’ultimo G20, ad Amburgo, una delle più creative forme di protesta sia proprio consistita in una sorta di invasione zombie. Con i manifestanti tutti grigi, ciondolanti, spenti.
A Romero, noi appassionati del genere, dovremo essere grati per sempre. Per aver sdoganato (a posteriori) un certo modo di fare cinema e una certa tematica. Anche se noi appassionati non abbiamo certo bisogno che qualcuno ci sdogani ciò che amiamo. Ma certo ha fatto capire come sia spesso inutile, quando non sopravvalutata, la mania di classificare i film per genere, o per grandi generi. I film di Romero, noi lo diciamo da un po’, non sono film di genere e, tanto meno, sono di serie B. Qualcuno se ne accorgerà solo ora probabilmente. Forse, ora, cominceranno a vedere le sue pellicole anche coloro che agli zombie hanno riservato solo qualche sorrisino ironico o di superiorità.
Grazie a lui si è sviluppato tutto un filone, più o meno riuscito è un altro discorso, di film in cui “i morti che camminano” ci parlano di noi, in qualche modo. Ci raccontano le nostre storture, le nostre mostruosità. Ci parlano di una umanità costretta, dagli zombie, a provare a collaborare, a mettersi insieme. Costituendo gruppi in cui, però, si ripetono le stesse dinamiche di sempre, malate e violente. Dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, che gli zombie non sono il pericolo, ma lo specchio.
Romero, con il suo cinema delle origini, pur solo per divertirsi, ci ha mostrato che gli zombie ci parlano della nostra sconfitta o, meglio, delle nostre sconfitte. E lo fanno proprio perché, pur distrutte dalla putrefazione, hanno due gambe, due braccia, occhi, nasi e bocche che sono così diverse ma così uguali alle nostre. E non c’è monito migliore.
Grazie George. E ora riguardiamoci i tuoi film.
George Romero photo credit Talkymovie
Scena film photo credit Coming Soon