C’è un modo di fare letteratura che potrebbe definirsi “letteratura civile” o “letteratura militante”. Una letteratura aspra e amara, soprattutto quando si parla di lavoro.
Lavoro e letteratura, lavoro e romanzo. Sembrano entrambi binomi difficili o, almeno, difficilmente coniugabili. Eppure si tratta di elementi che, nella letteratura mondiale, hanno portato veri e propri capolavori come quelli di John Steinbeck con Furore (tanto per citarne uno), come alcune brumose pagine di Charles Dickens o quelle impregnate di fatica del londoniano (inteso come di Jack London) Martin Eden.
Se citiamo questi autori stranieri non è per una mania esterofila ma solo per mettere in luce come questo tipo di letteratura in Italia, tranne qualche nome, sembra abbia “rilegato” i capolavori in un recinto ben delimitato. In Italia il rapporto tra romanzo e lavoro ha vissuto una difficoltà culturale maggiore. Quella che ha fatto considerare ontologicamente impossibile, per uno scrittore, occuparsi del sociale, e del lavoro in particolare. Come se questo aspetto essenziale della vita dovesse essere appannaggio del giornalismo o, comunque, di una scrittura quanto più asettica possibile. Il racconto, in Italia, difficilmente è parso il modo più efficace per parlare di fabbriche, cantieri, uffici.
Questo, ben inteso, non significa che non vi siano stati romanzi in cui il lavoro non sia stato una cornice fondamentale e legante, quando non addirittura un vero e proprio palcoscenico. Basti pensare alla dura, e poetica al contempo, epopea ed epica delle pagine di Verga. Per poi arrivare agli anni ’60 con Ottiero Ottieri, Fortini, l’imprescindibile Memoriale di Paolo Volponi, l’immenso Bianciardi o il più ostico Testori. E come non citare il meraviglioso, amaro e malinconico La dismissione di Ermanno Rea, vere e proprie pagine di letteratura dedicate alla fine dell’ILVA di Bagnoli. Sono queste, pagine in cui le dinamiche del reportage si mescolano con la letteratura raggiungendo vette stilistiche che nulla hanno da invidiare ai libri in cui, ad essere protagonisti, sono altri aspetti della vita, erroneamente considerati assoluti, o più letterari appunto.
C’è stato e continua ad esserci, per fortuna, chi riesce a immergersi nelle dinamiche, nei problemi e, a volte, nelle vere e proprie disgrazie del lavoro, traendone pagine in cui alla “cronaca in presa diretta” diciamo così, si unisce quella empatia, quella capacità di adottare “lo sguardo del cane” come lo chiamerebbe Franco Arminio, uno sguardo che non teme di partire dal basso e, se del caso, sporcarsi. Non è necessario trovare per forza una dicotomia tra giornalismo e questa letteratura. Sono solo due modi diversi, due mondi diversi. Ma si può scrivere reportage che profumano di romanzo, di narrazione. E ci restituiscono le storie di lavoratori comuni, defilati, quasi invisibili. Perché, oggi, si parla tanto (e spesso male) di lavoro ma poco di lavoratori.
Tra questi immensi scrittori c’è Angelo Ferracuti che, del lavoro e dei lavoratori, ha sempre fatto il centro delle sue pagine, dei suoi libri. Testi potenti come Risorse umane, Il costo della vita, Andare, camminare, lavorare, Addio (di cui abbiamo scritto qui su Lottavo.it). Tutti libri che possiamo tranquillamente definire reportage narrativi proprio perché alla lucida precisione della cronaca fa da controcanto la straniante e emotiva restituzione letteraria. Come se il racconto narrativo consentisse quella visione laterale, profonda ed empatica, impossibile alla troppo fredda e impersonale cronaca giornalistica. Ne parliamo proprio con lui.
La forma del reportage è funzionale all’argomento “lavoro”, tema centrale dei tuoi libri?
Credo di sì. Il reportage è una forma ibrida molto duttile, è la forma della vita rispetto a quella della fiction, molto congeniale agli scrittori della realtà in un’epoca, quella della Società dello Spettacolo, dove lo storytelling domina i sistemi di comunicazione ma anche la letteratura.
Parli spesso del tuo rapporto con Dondero, grandissimo fotografo. Mi chiedo, e ti chiedo, quanto questo tuo rapporto abbia contribuito a rendere il tuo stile, pur nella forma di reportage, qualcosa che non è mai asettico. Cioè c’è sempre un’emotività molto forte, un’emozione che sembra farsi “cartografia letteraria”. Un po’ come le sue foto che raccontano, molto puntualmente, come lo sguardo (anche quello dello scrittore di reportage) non sia e non possa mai essere neutro.
Mario Dondero è stato un grandissimo reporter, un artista, ma lui si considerava un fotogiornalista, la dimensione della denuncia era sempre forte nelle cose che faceva, così come la partecipazione emotiva. Secondo me la dimensione empatica è anche politica, entrare in comunione con la gente, penetrare comunità, significa anche condividere esperienze e valori, mettersi al servizio degli altri, al servizio di una causa. E’ quello che Mario mi ha insegnato a esprimere, nel mio piccolo, lui che è stato davvero una leggenda. Il suo modello era Robert Capa, il grande fotografo dell’agenzia Magnum, con una dimensione anche avventurosa, ma ci sono stati scrittori che abbiamo amato moltissimo entrambi, come Orwell, per esempio, oppure Ryszard Kapuściński, grandi viaggiatori e raccontatori dal vero.
Perché è così urgente, per te, mettere il lavoro al centro dei tuoi libri, delle tue ricerche?
E’ un tema presente sin dai miei primi libri. Pensa, il primo racconto che ho scritto in vita mia si intitolava “Collocamento”, ed era la storia di un ragazzo degli ‘anni ’70 che andava a Roma dalla provincia per un colloquio. Nelle dinamiche del mondo del lavoro si riflettono le condizioni economiche e politiche di un’epoca, le sue contraddizioni, e poi ogni lavoro ha una sua dimensione narrativa che mi interessa, un’epica propria, è fortemente identitario, entra in modo prepotente nella biografia della persona.
Viviamo un’epoca di imbarbarimento anche del linguaggio. Una specie di incapacità di dare senso alle parole. E questo diventa particolarmente evidente quando si sente la politica e l’imprenditoria parlare di lavoro. Tutto ridotto a numeri e ad una visione senza alcuna prospettiva. In quest’ottica pensi che sarebbe importante, e urgente, far capire che lavoro-vita non possono essere considerati e letti come fossero compartimenti stagni? Cioè come fossero, appunto, due parole antitetiche?
“La vita di un uomo non è un’impresa commerciale” scrisse Bellow ne “La resa dei conti”. Quando scrissi e intitolai il mio libro “Le risorse umane” gli diedi un senso contrario a quello del management, positivo, così come ne “Il costo della vita”, i titoli sono molto programmatici nei miei lavori. La sconfitta si vede proprio nel linguaggio, è caduto in prescrizione un lessico, ha vinto la lingua del marketing, quella neoliberista, ha vinto lo storytelling del management, la lingua autoritaria del capitale finanziario. Questa lingua americanizzante e assurda, avvilente, serve per far vincere profitto e sopraffazione, il lavoro è frammentato, spersonalizzante, umiliante, si sono impoverite fasce importanti della popolazione, ai giovani è stato precluso il futuro, ma la narrazione del potere ci dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Parlare di lavoro mi porta, inevitabilmente, a pensare a quello che è diventato l’argomento del giorno: l’immigrazione. Trattato nel modo becero con cui lo si fa in questo periodo, con l’insulsa distinzione tra profughi e migranti economici. Tu credi che l’atteggiamento di molti, rispetto a questo argomento, sia legato all’immagine stessa che hanno del lavoro, come campo di battaglia, territorio da difendere? Cioè, si può arrivare a dire che l’idea stessa che si ha di “lavoro” possa cambiare l’intero sguardo che si ha sulla vita?
C’è questa doppia morale ipocrita, colonialista, qualcosa di odioso, che vogliamo accogliere forza lavoro ma non le persone. Come scriveva Max Frisch, invece, “aspettavamo delle braccia e sono arrivati degli uomini”. Nel lavoro servono e sono sfruttati, tengono in vita interi pezzi di economia, edilizia, agricoltura, soprattutto nelle regioni del razzismo reale, Veneto, Lombardia, quelle da dove emigravamo di più quando “gli albanesi eravamo noi” tanto per citare il libro di Stella. Questa idea che gli immigrati rubano il lavoro è una falsità mostruosa, perché non è vero, così come che i profughi distraggono risorse degli italiani. E’ il frutto dell’ignoranza, in parte, del non voler vedere cosa succede nel resto del mondo, in quello povero, dilaniato da guerre, sconvolgimenti climatici, epidemie. Deprediamo le loro risorse a casa loro e non li vogliamo qui, questa è oggi l’ingiustizia maggiore contro la quale tutti dovrebbero battersi, invece con la crisi, attraverso un sistema mediatico barbarico, artatamente blindato, sono riusciti a inventare un nemico fragile e a portata di mano, lo straniero. E’ un sintomo molto pericoloso.
Ho letto in una tua intervista, che ad un certo punto hai abbandonato la lettura di romanzi e narrativa, preferendo la saggistica e la storia. Ma se ti “costringessi” a dirmi se c’è qualche romanzo che metta al centro il rapporto tra uomo e lavoro, e che hai apprezzato, cosa mi diresti?
Mi piacciono molto i libri di Stefano Valenti, li sento intimamente vicini al mio modo di sentire le cose del mondo, e lui è davvero uno scrittore che coniuga impegno civile e impegno stilistico-letterario alla perfezione. E’ un po’ un Bianciardi dei nostri giorni, e il suo “La fabbrica del panico” ha un po’ riaperto la partita della narrativa civile. Un altro che apprezzo molto, ma che paradossalmente ha raccontato il grande capitale finanziario, è Sebastiano Nata, il suo “Il dipendente” resta un libro imprescindibile.
Una volta ti sei definito “osservatore militante”, cosa che trovo potentissima. Forse è un altro modo per dire che l’estetica non può essere disgiunta dall’etica?
Per me scrivere non è un mestiere, è un modo di essere, un modo di stare al mondo. A dire il vero questa cosa dell’osservatore militante l’avevano detta a proposito di Romano Bilenchi, e a me era piaciuta molto, e forse per questo vado d’accordo con i fotografi, che invece di guardare vedono, riescono a cogliere le cose misteriose, occultate, e ce le rivelano attraverso un clic, un fuoco, la capacità di cogliere l’attimo. Il lavoro di uno scrittore, a maggior ragione di un reporter, dovrebbe essere questo, andare a vedere quello che non si vede o non si vuol vedere, che viene cancellato, rimosso, non solo quindi cose fisiche, ma anche problematiche, conflitti. L’estetica pura è odiosa, è come fare una fotografia leziosa, e io detesto gli esercizi di stile, anche se lo stile, la forma giusta, nutre la denuncia. Questa cosa la chiamerei “racconto onesto”. E’ un concetto che mi ha insegnato Nicola Abrate, un ex operaio dell’Isochimica di Avellino, uno di quelli che sono stati costretti a maneggiare e inalare amianto. “Dovevamo ricomporre il racconto onesto” mi disse di quella storia operaia, e ho capito che in fondo è quello che cerco di fare da anni.
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