Eroi della Frontiera, l’ultimo libro di Dave Eggers ha, nel titolo e nella copertina, una chiara dichiarazione di intenti. Le sue pagine sono un insieme dei più classici topos della letteratura americana a partire da quello che sembra esserne il mito fondativo: il viaggio on the road. Talmente fondativo da rendere difficile capire se l’espediente letterario sia nato a sostegno della storia o viceversa. Ma forse non è neanche poi così importante saperlo a meno che non ci si voglia porre qualche domanda sul rapporto che Eggers voleva creare con i lettori di questo libro. In ogni caso di troviamo tra le mani un testo che merita di essere letto se non altro per capire, ancora una volta, come la letteratura americana sia l’unica a conservare, poco o tanto, una componente di denuncia, una vivificante capacità di non essere ombelicale. Se vogliamo trovare ancora testimonianze di una letteratura civile, che ci piaccia o no, è alla letteratura americana che dobbiamo guardare.
On the road questa volta una donna, Josie, neanche quarant’enne che, all’improvviso, lascia il suo avviato studio dentistico, carica i suoi due figli su un camper dal suggestivo nome di Chateau, parte dall’Ohio per raggiungere l’Alaska. Immaginata e desiderata, forse, come una terra vergine e incontaminata ma, in realtà, distrutta dagli incendi e molto lontana da ciò che Josie si era aspettata. Bella e potente, anche se forse un poco archetipica, metafora di un sogno americano sempre più in crisi, sempre più lontano dalla salvifica soluzione di un luogo, una frontiera appunto, al di là della quale c’è sempre qualcosa di meglio rispetto a ciò che c’è al di qua.
Il viaggio di Josie e dei suoi figli Paul e Ana, assume pagina dopo pagina i contorni del viaggio dell’America tutta e di molti americani, ancora incapaci di comprendere che la natura non è un terreno vergine da usare per provare a non sentire l’inquietudine, e tanto meno un contenitore di esseri vergini da cui farci consolare o confermare paure o aspettative. Ecco allora la storia di una donna che sembra muoversi senza una meta, sempre sull’orlo di un crollo e in balia del suo sentirsi inadeguata. Con due figli che, a volte le fanno da controcanto a volte da amplificatori della sua solitudine.
C’è davvero molta della cultura americana in questo libro. Anche nell’atteggiamento vagamente arrogante con cui Eggers, in alcuni punti, sembra volersi innalzare al di sopra di un groviglio di contraddizioni che sono, inevitabilmente, anche sue, come americano. Forse anche per questo i momenti e le pagine migliori del libro sono quelle in cui la “voce” dello scrittore si sporca delle stesse paure della protagonista. Con i suoi tentativi di non cadere a pezzi e di trovare un eroe, “uno che non si tira indietro”, sapendo in ogni istante che questo eroe non c’è. O forse sì. Perché il sogno americano è duro a morire. Agonizza ma non muore perché “c’è la felicità appagata e c’è la felicità della catapecchia”.
E c’è anche tensione e fuga. Nel paese e nella vita di Josie che si trova a dover fuggire agli incendi, agli animali notturni. Braccata da qualcosa che è fuori e dentro. Allora sembra normale entrare in case altrui, cercare conforto momentaneo credendolo stabile per poi doversene andare. Con un senso di minaccia sempre incombente anche là dove non dovrebbe esserci. Emblematiche, in questo senso, le bellissime pagine ambientate su una nave da crociera durante uno spettacolino, triste e surreale, di magia. Durante il quale però il pubblico non applaude alla magia ma ad un ancor più triste personaggio che conosce a memoria i codici postali di tutti i paesi degli Stati Uniti. Potentissima metafora di un paese che, ancora una volta, ci viene raccontato come in bilico tra accoglienza e chiusura.
Belle, in quest’ottica, le ultime righe del libro: “Josie si sorprese a sorridere, sapendo che avevano fatto quello che potevano con quello che avevano, traendo la gioia e lo scopo a ogni passo […] Poi, però, c’è domani.” E come sarà, Eggers non lo dice. E il libro finisce così.
Letteratura americana
Mondadori
2017
319