Con il racconto I piedi, Alessandro Golinelli ci regala un suo lavoro di circa vent’anni fa. Tenuto in un cassetto e regalato a Lottavo.it con una leggera rilettura e qualche piccolo ritocco. Una bella occasione, per noi e per i nostri lettori, per leggere qualcosa che ci riporta, se non proprio agli esordi di questo grande scrittore, sicuramente ad un passato che costituisce parte integrante del Golinelli di oggi e delle sue opere più conosciute e amate. Un po’ come se, con questo racconto, Golinelli ci avesse regalato l’opportunità di assistere alla sua evoluzione, al suo mutare da allora a oggi. Per accorgersi anche di come, molti aspetti della sua poetica e del suo stile, fossero già ben presenti anche vent’anni fa. Racconti e romanzi brevi sono stati, fin dagli anni universitari, materia del lavoro di scrittura di Golinelli. Approdato in libreria nel 1992 con Basta che paghino, non facile libro sul tema della prostituzione maschile, che ottiene un notevole successo. La sua attività di scrittore continua alternandosi a quella di videoartista, e portando negli anni, in libreria, libri come Kurt sta facendo la farfalla, Angeli e La felicità della signora, che diventano, ben presto, quasi libri di culto. Tra le sue ultime opere ricordiamo L’amore semplicemente, che tratta il delicato tema della passione tra due adolescenti all’interno di un campo di concentramento e Una rivoluzione con cui vince il Premio Montale per la narrativa.
Che dire? Buona lettura

I piedi

«A stantsiya Milano… Da… Stantsiya Milano, io Tourin. Mama. Tourin. Da» e poi un largo sorriso con labbra grosse e scure e i denti sani. Con la pelle segnata dai brufoli, grandi occhi cerulei spalancati a forza, testa larga, angolosa, e capelli biondissimi ricci non lavati appiccicati al cranio piatto. Diciannove anni e le braccia lunghe e magre con l’attaccatura delle spalle rotonda che quasi gonfiava la polo di cotone a nido d’ape a rigoni verdi e neri, nuova e già sporca. Al polso un orologio col cinturino di metallo enorme e pesante, scomodo. Era stato lui a sedersi di fronte a me, io l’avevo appena adocchiato salendo sul treno, mentre salutavo l’amico che mi aveva accompagnato. Mi aveva incuriosito la sua faccia felice. Lui, invece, si era subito infilato nel mio scompartimento e non per approfittarsi come avevo temuto quando il controllore lo aveva trovato col biglietto chilometrico insufficiente. I dieci euro in più li aveva, si era limitato a chiedermi se fosse la banconota giusta. Era notte fonda e lui aveva acceso le luci sui sedili e spento i neon. Non ricordo nemmeno più come riuscivano a comprenderci. Io non sapevo una parola di ucraino e lui poco più di una decina di inglese, ma poi c’era stato un po’ di russo, di francese, di tedesco, d’italiano e molti gesti, ma era l’emozione che fungeva da grammatica a quei segni casuali. Gli piaceva raccontare storie, quasi cantarle per renderle comprensibili. Quando la parola che pronunciava mi sfuggiva ne prolungava il suono in una cantilena che mi facesse arrivare al suo significato, che gli desse il tempo di mimarla, magari toccandosi. E sorrideva e anch’io, più per imbarazzo, avevo cominciato a farlo. Li concludeva sempre allo stesso modo i suoi racconti: dichiarando che avrebbe provato a dormire, come se lo avessero stancato per lo sforzo di farsi capire. Ma dopo aver chiuso gli occhi e poggiato la testa sul lato, subito li spalancava e si raddrizzava temendo che se si fosse addormentato non sarebbe più sceso, nonostante io gli avessi promesso più volte che lo avrei svegliato a Milano, dove partiva la coincidenza per Torino. Ma lui si accendeva una sigaretta, la fumava e parlava. Il primo racconto riguardava il fratello meccanico e consistette in questo: mio fratello fa il meccanico in Ucraina, è molto bravo, difficilmente troverai un meccanico più bravo di lui nella mia città – in provincia vicino alla Transilvania, – ma le macchine da noi sono vecchie, i modelli sono superati e lui non saprebbe dove mettere le mani in una volkswagen nuova, per cui il suo lavoro non gli serve a nulla.
Il secondo racconto fu sul suo viaggio a Istanbul: sono stato a Istanbul, è una bella città, grandissima, li ci sono molte puttane rumene, russe, ungheresi e bulgare, e le paghi di meno che in Ucraina, ma a me non interessano – usammo, per l’occasione, anche alcune parole turche. Mi piace viaggiare, ci sono stato due giorni, ci voglio tornare.
Il terzo racconto lo dedicò alla fidanzata: la mia ragazza è più grande di me, di due anni. E’ bella ma è soprattutto intelligente, va all’università. Tutti mi invidiano perché la mia fidanzata è intelligente, davvero, come mia madre che è un’infermiera. Ora che sono andata via ci siamo lasciati.
Il quarto racconto trattava dei suoi piedi e fu il più lungo: mi fanno male perché sono partito dalla mia città ventidue giorni fa e sono arrivato al confine con l’Italia a piedi. E’ più di una settimana che non mi tolgo le scarpe perché ho paura che poi non riuscirei a rimetterle. Dalla mia città ho camminato sino al confine con l’Ungheria. In Ungheria ho fatto anche un po’ di autostop – un camionista mi ha fatto fare il tragitto più lungo – e sono arrivato al confine con l’Austria. Ho passato il confine a piedi, non potevo prendere il treno perché se la polizia ti trova ti rimanda indietro. Ho attraversato l’Austria a piedi, tranne un pezzetto, quando sono salito su un treno merci e mi sono infilato in una cisterna vuota, ma sono stato stupido e per uscire ho fatto fatica e ci ho lasciato uno zainetto con le altre scarpe. Il resto ho camminato. Al confine con l’Italia ho preso un taxi, ho pagato cinquecento marchi, e il tassista mi ha portato sino a qui. Adesso sono sul treno. Arrivo a Milano e poi prendo il treno per Torino. «Non ci sono treni per Torino a quest’ora. La stazione chiude a mezzanotte. Il primo lo trovi domattina» gli dissi. Non capì e ci misi un po’ a spiegarglielo. Mi accorsi che aveva compreso soltanto quando impallidì. Se nelle ore di attesa di fronte alla Stazione Centrale lo avesse fermato la polizia, lo avrebbe rimpatriato e così lo invitai a fermarsi a casa mia per la notte. Rassicurato, riprese il respiro regolare, si accese una sigaretta, sorrise e di nuovo disse di voler dormire ma poi si riprese e cominciò il quinto racconto: mio padre fa lo scrittore e non guadagna nulla. Ha la barba e i baffi e la mia fidanzata dice che è un bravo scrittore. Mia madre è a Torino e adesso io sto sei mesi con lei perché sono cinque anni che non la vedo. Ma poi torno da mio padre. Io non leggo molto ma i suoi libri mi piacciono, racconta storie fantastiche, di magia. Quando torno in Ucraina so che la mia ragazza mi aspetta. Arrivammo alla stazione di Lambrate. Con una passeggiata di una decina di minuti sotto le stelle di fine estate, saremmo giunti a casa mia, ma lui non riusciva a camminare. Era rimasto seduto troppo a lungo e i piedi gli si erano gonfiati nelle scarpe. Teneva le gambe larghe, appoggiando la suola di taglio, ma contorceva il volto per il dolore, sebbene poi cercasse di ritrovare il sorriso. . Trovammo un taxi e, giunti da me, lo convinsi – non mi ricordo come – a togliersi le scarpe da ginnastica e le calze. I piedi erano rossi, tumefatti e piagati. Lui era seduto sul divano del soggiorno, io mi ci accucciai davanti spostando il tavolino per lavargli i piedi disinfettandoglieli con l’amuchina. Ero contento. La piaghe erano bianche, spugnose, la pelle si staccava. «Anch’io faccio lo scrittore, come tuo padre» gli dissi, ma lui non ci credette fino a quando non gli mostrai i miei libri e non mi riconobbe nelle foto sul retro di copertina. Poi si addormentò e lo guardai dormire sul divano, con la luce accesa, fumando, per le tre ore che lo separavano dal primo treno per Torino

I piedi Book Cover I piedi
Alessandro Golinelli
Racconti
1997