L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra
Non fatevi ingannare dal nome dell’autore. Anche se il destino pare abbia giocato non poco in questo caso. Con un titolo del genere è facile confondersi (o, ancora meglio, incuriosirsi) e pensare che il Gigi Riva della situazione sia l’indimenticato e indimenticabile campione. In effetti sempre di campione si tratta. Ma trattandosi di un giornalista, in questo caso possiamo dire che si tratta di un campione di scrittura. Questo è sì un libro che parla di calcio ma è, anche e forse soprattutto, di un libro che parla di uno dei conflitti più sanguinari e sconosciuti (almeno da noi italiani): la guerra nei Balcani degli anni ’90.
“C’è un episodio della nostra esistenza che ci perseguita nonostante noi. Se è un destino subìto lo possiamo accettare con rassegnazione, con quella benevolenza verso noi stessi che ci emanda da qualsiasi responsabilità. Se lo abbiamo provocato, il rimorso è una tortura che ci rimanda continuamente, con la memoria, alle porte girevoli dell’atto prima, quando era ancora possibile deviare il corso degli eventi”
Già da queste prime righe si entra subito nel vivo di un libro che nel pallone che gira su un campo di calcio trova “solo” un pretesto per raccontarci una storia, una brutta storia, di politica, di geopolitica e di sangue, tanto sangue. Se volete capire qualcosa di cosa sia stata davvero la dissoluzione della Jugoslavia e della guerra balcanica dovete leggere questo libro. Che ha un immenso pregio: è scritto quasi come fosse un romanzo. Pregio, non perché un romanzo abbia qualità maggiori di un reportage (son due cose diverse) ma semplicemente perché coinvolge anche emotivamente mentre racconta episodi, rammenta nomi, evoca dolore, con la suspense quasi di un romanzo giallo. Si sente la tensione salire, si parla di calcio ma si avverte, neanche tanto in sottofondo, che qualcosa di terribile sta per accadere. Chi era amico diventa nemico, chi apparteneva ad una medesima nazione diventa forestiero e straniero.
Ed è anche per questo che nel brano sopra riportato vi sono due parole “porte girevoli” che sono un po’ la chiave di tutto il libro. Un attimo prima e un attimo dopo, una sorta di sliding doors. Cosa sarebbe successo se quel 30 giugno 1990, Faruk Hadzibegic, capitano dell’ultima nazionale jugoslava, non avesse sbagliato quel rigore? E se pensate che a cambiare sarebbero state solo le sorti di quella partita, allora vuol dire che dovete assolutamente leggere questo testo. Perché la risposta che segue è tanto pesante quanto tragica. E se la sono fatta, lo stesso Faruk ma anche l’allora allenatore Ivica Osim, arrivando ad una sorta di fatalismo postumo la cui risposta poteva essere: “Forse non ci sarebbe stata la guerra se avessimo vinto la Coppa del Mondo” Quella era l’ultima nazionale che teneva insieme serbi, bosniaci, croati, macedoni, slveni e montenegrini. Mentre tutto attorno si stava preparando la carneficina della guerra civile e la Jugoslavia, come scrive lo stesso Riva “era già stata consegnata agli archivi della storia” anche se qualcuno si illudeva ancora che non fosse così.
Sono pagine bellissime quelle di L’ultimo rigore di Faruk, concitate e precise, emozionanti e non neutre. In un certo senso eleganti. C’è un’eco della capacità di raccontare di Brera e di quella pacatezza che ci manca di Berselli ne suo bellissimo Il più mancino dei tiri. Certo lo sport, in particolare il calcio, ben si presta a fare da controcanto per storie di guerra. Ce lo ricorda bene Riva quando ci invita a pensare a cosa accadde con i Mondiali di Argentina mentre nel paese persone sparivano e venivano torturate. O la portata politica di defezioni importanti in Olimpiadi come quelle di Mosca e di Los Angeles.
C’è dunque qui il racconto del disfacimento delle Jugoslavia fatto attraverso il disfacimento della sua nazionale, attraverso episodi calcistici che servono però per ricordarci orrori come Srebrenica, nomi sinistri come Mladic o Karadzic. E intanto scorrono le parole e le “immagini” di calciatori compagni di squadra fino a poco prima e che diventano, l’attimo dopo, nemici da combattere, mentre nel paese si comincia a sentire l’orrore di espressioni come “pulizia etnica”. Riva ci racconta di partite giocate in stadi in cui le tifoserie si stavano preparando a diventare bacino di raccolta delle più varie e disparate milizie. Non nuovo, questo aspetto, purtroppo, quando il calcio diventa solo un pretesto per “mettere in campo” odi, rancori, razzismo e idiozia.
E di commistioni, seppure postume, tra calcio e politica, nel libro ve ne sono molte. A partire da quelle forse più tristemente famose di Tudjiman, irredentista croato incriminato poi per crimini di guerra che, nel dopo guerra, era stato il presidente della mitica Partizan Belgrado. O il famigerato Raznjatovic, conosciuto come la tigre Arkan, capo degli hooligan della Stella Rossa, sempre di Belgrado e “addestrati” proprio da lui a diventar milizia sanguinaria. Il calcio dunque come continuazione della politica e viceversa. Quando una partita diventa niente altro che un atto di guerra con altri mezzi.
Un libro straordinario che tiene letteralmente incollati i lettori che hanno la fortuna di leggerlo. Io, che non sono per nulla appassionata di calcio, ho letteralmente “mangiato” questo libro. Apprezzandolo, con lo stesso gusto, con cui, curiosamente, gustai un altro piccolo gioiello La vita è un pallone rotondo di Vladimir Dimitrijevic edizioni Adelphi
Il contesto
Letteratura storia
Sellerio
2016
184