Arrivi alla fine della lettura di questo libro, American Dust, e con la mano cerchi disperatamente, a vuoto, un’altra pagina da sfogliare. Ma le pagine sono terminate. Allora lo chiudi. Qualche minuto di silenzio immobile. E ricominci a leggerlo. Due volte. Nella stessa giornata. Una cosa che capita, quando capita, forse una volta ogni vent’anni. O forse mai. Francamente non ricordo l’ultima volta che mi è capitato. Al punto che dubito mi sia capitato mai.
American Dust di Richard Brautigan è un libro che ti fa venire voglia di parlarne, in continuazione. Di andare in giro per strada e fermare persone a caso chiedendo loro: “Ma voi avete letto American Dust?” E, alla loro presumibilmente negativa risposta, tirare fuori una copia del libro dalla tasca, metterlo nelle mani del basito passante, e andarsene. Pensando così di avere fatto un’opera di bene, spandendo bellezza, scrittura e polvere americana.
Due parole su Richard Brautigan, così giusto per capire di chi stiamo parlando, e non certo perché l’elemento biografico sia essenziale. Anzi. A volte prende il sopravvento sull’opera. Non in questo caso però. Comunque. Icona, a torto o a ragione, del movimento hippie e delle sue folate di vento libertario, Brautigan mette fine alla sua vita a neanche cinquant’anni, nel mezzo burrascoso di un periodo di depressione e alcolismo. Se proprio vogliamo trovare un percorso di causa ed effetto tra suicidio e depressione, questi i fatti. Ma troppo complesso un gesto del genere per cercare anche solo minimamente di trovarne una logica.
Prima di ciò Brautigan conosce un momento di vera gloria, di successo letterario che, con i suoi primi libri, lo catapulta nell’olimpo dei grandi. Ma sic transit gloria mundi e, questo miracoloso American Dust viene pubblicato nel 1982, due anni prima della morte e in un periodo molto diverso da quello del successo. Gloria e oblio, questa la parabola umana. Quella letteraria la segue, in parte, percorrendo, per fortuna, strade un poco diverse. Le strade tracciate dal dio delle pagine belle che, prima o poi, pareggia il conto tirando fuori dall’oblio parole e pagine
Icona hippie, flower power? Forse. A posteriori. Capita quando la critica si concentra sulle date di uscita dei libri senza interrogarsi su ciò che conta davvero: l’opera, appunto. Icona hippie, dunque, forse come frutto di un “malinteso” visto che, i libri che lo fecero assurgere a tale ruolo furono scritti prima di quei mitici anni. Anni duranti i quali Brautigan divenne figura di riferimento pur non avendo scritto praticamente nulla. Ma, in qualche modo, andava bene anche a lui
Comunque. American Dust, un vorticoso insieme di metafore spiazzanti, pleonasmi, dialoghi teneri e surreali ci catapultano nell’Oregon dell’immediato dopoguerra. Un ragazzino, senza padre, con una madre quanto meno problematica, vive e ci racconta quell’America ancora ferita dalla crisi. Personaggi bizzarri, guardiani di segherie, vecchi eremiti, due strani tipi che montano un vero salottino, ogni volta, sulle rive del lago per pescare pesci gatto. Un’umanità varia, dolente eppure poetica e autentica. Continui salti temporali per raccontare, e forse fare i conti, con un fatto, il fatto: l’uccisione, tragica e non voluta, di un compagno di giochi. Perché, nel 1948, non era strano vedere un ragazzino in giro con un fucile. E oggi?
Un andare e tornare nel tempo, non solo nel racconto ma anche nell’America di allora e di oggi, degli anni in cui Brautigan scrisse questo libro e in quella di domani. Se c’è un libro che, dalla prima all’ultima pagina, racconta, dolente e ironico, il sogno americano e la sua “falsità” è proprio American Dust. Sincopato come un brano jazz, malinconico come un blues, sconclusionato e lucido come lo sguardo di un ragazzino. Ogni cosa sembra evocare il capitalismo nascente di quella America e l’antidoto: la capacità di ascoltare e narrare. Il protagonista senza nome si muove nella vita, ascoltando, cose e persone, facendo il ficcanaso con l’immaginazione. Dalla parte opposta di quella linea che lo divide dai ragazzi “di successo” quelli che finiscono negli annali della scuola, che hanno la ragazza più bella.
Una comunità di reietti, di sconfitti, che già si sa che lo sono. Con la loro vita, la loro immaginazione, la loro solidarietà. E la bugia del sogno americano, sempre in sottofondo. E poco importa classificare Brautigan dal punto di vista letterario, sapere quale cultura va demolendo o quale controcultura usi per demolire. Questa è letteratura altissima. Punto. Sorretta da una scrittura solo apparentemente di facile lettura. Non è per nulla facile. Non c’è nulla di facile in questo libro. Un libro il cui cuore, secondo me, si dischiude alla fine, con una amara dolcezza, in righe che sono una frustata nella schiena: “Sembrava quasi una fiaba a lieto fine nel cuore gotico dell’America del secondo dopoguerra, prima che la televisione menomasse l’immaginazione collettiva e rinchiudesse la gente in casa, impedendole di vivere con dignità le proprie fantasie.” L’America e il suo sogno si sfaldano per mancanza di immaginazione, allora bisogna raccontare “Prima che il vento si porti via questa polvere…polvere americana.”
Libro urgente, scritto quasi in presa diretta, come se non ci fosse una correzione, un montaggio, un intervento post. Come se Brautigan si sedesse accanto a chi legge e raccontasse, proprio così, come viene. Un ricordo, poi una considerazione, poi ancora un ricordo, poi un salto nel passato e uno nel presente. Tutto mentre si passeggia lungo le rive di un lago dell’Oregon.
Ne parliamo con Luca Briasco, traduttore di American Dust e autore della interessantissima postfazione al libro, nonché editor della narrativa straniera per Minimumfax
Perché la scelta di partire proprio da American Dust nel pubblicare le opere di Brautigan?
Si parte sempre dalle cose migliori, o più rappresentative. E American Dust, con Pesca alla trota (appena ripubblicato da Stile libero), mi sembra abbia la capacità meglio di ogni altro suo libro di raccontarci Brautigan, e di introdurci nel suo mondo. Aiuta in tal senso non solo l’evidente matrice autobiografica del libro, ma anche il suo carattere ideale di testamento, e la perfetta e matura rispondenza a una ricerca formale e stilistica che ha accompagnato l’intera traiettoria di Brautigan.
Come traduttore quali sono state le difficoltà davanti a cui ti sei trovato? Immagino non sia stato facile lavorare su un testo apparentemente semplice ma, in realtà, estremamente complesso, con le sue metafore ardite, i salti temporali, i dialoghi di primo acchito quasi surreali.
Bisogna soprattutto metter via la propria logica e seguire quella dell’autore, del libro, delle parole. Calarsi nella surrealtà e nella fulmineità di certi passaggi, senza semplificare né intellettualizzare all’eccesso. La cosa più difficile in assoluto è cogliere e riprodurre, dietro la varietà di registri e lo scintillio delle metafore, un’uniformità tonale che Brautigan al meglio di sé non perde quasi mai.
La letteratura americana ha, nei suoi esponenti migliori, la straordinaria capacità di farsi “letteratura civile” anche quando parla, come in questo caso, di ricordi personali. C’è sempre un respiro più ampio. Come te lo spieghi questo aspetto?
Credo sia figlio dell’assenza di ideologismi. Nella miglior letteratura americana l’impegno civile è figlio dell’esperienza diretta e dell’approccio individuale, e non di posizioni precostituite. E’ questo il senso più nobile della massima hemingwayana “scrivi di ciò che sai”.
Nella tua bellissima postfazione al libro parli di tragedia a lieto fine. Perché tragedia? Brautigan, in alcune delle righe più straordinarie del libro usa le parole “fiaba a lieto fine nel cuore gotico dell’America”
Il senso della tragedia sta secondo me proprio nelle parole di Brautigan. E nel “cuore gotico” dentro cui decide di ambientare una vicenda descritta con i toni del fiabesco. Quando poi viene utilizzato il termine lieto fine credo vi sia – abilmente nascosto – un gioco tra le ultime pagine del romanzo, con la coppia di grassoni e il loro romanticismo “comunitario”, e il mondo dal quale, a posteriori, viene narrata la storia, dominato dall’individualismo sfrenato e da un isolamento di cui la televisione è quasi il correlativo oggettivo. American Dust è insomma un po’ “l’ultima fiaba possibile”: la rievocazione di un passato che è forse irrimediabilmente perduto.
La crisi, una comunità di “reietti” che, in qualche modo, vivono con una sorta di solidarietà reciproca. C’è, in questo libro di trent’anni fa, ancora qualcosa dell’America di oggi?
C’è qualcosa dell’America degli anni ’30, che in fondo, pur essendo il romanzo ambientato alla fine della Seconda guerra mondiale, è per Brautigan il vero contesto di riferimento. E pertanto, nella misura in cui quell’ideale comunitario e solidale rappresenta il contraltare sempre presente a un individualismo imperante, American Dust continua a parlarci degli Stati Uniti, anche quelli di oggi. La solidarietà e la pulsione comunitaria non hanno mai cessato di esistere, e normalmente riprendono forza e fiato proprio nei momenti di maggior pressione e crisi.
La capacità di ascoltare e la conseguente capacità di narrare, qui sembra quasi contrapporsi al sistema capitalistico americano. Emblematiche le parole in cui B. racconta della professoressa in preda al terrore davanti all’amore che il protagonista mostra nei confronti della lettura. Si può, in tal senso, parlare di romanzo politico?
Non parlerei di romanzo politico. O meglio, per me se ne può parlare nella misura in cui ogni romanzo che esalta l’autonomia e la vitalità dell’impulso a narrare e ad ascoltare le narrazioni altrui è ANCHE politico. Ecco, direi più che altro che in Brautigan non c’è ombra di narcisismo, e che la fede stessa nella forza del racconto non è mai autoriferita, e sempre proiettata in una dimensione dialogante.
Classificare e definire un autore sono, spesso, frutto dell’incapacità di confrontarsi con la complessità di esso. B associato alla cultura dei figli dei fiori è stata, secondo te, una incapacità di lettura da parte della critica o un’operazione voluta di addomesticamento del portato critico della sua scrittura?
Non credo all’idea di un addomesticamento. La generazione hippy aveva bisogno di un cantore, e Brautigan. si prestava all’uso. Non vedo perché negare che Brautigan. ci abbia messo del suo, auto-iconizzandosi e godendosi il successo anche economico che derivava dal suo status. Poi, però, come tutte le icone, è rimasto incastrato nel suo ruolo e ha sofferto degli stessi meccanismi di obsolescenza cui tutte le mode prima o poi pagano lo scotto. Tra l’altro la generazione hippy si definiva a partire da una “critica del sistema”, e dunque il portato critico di B. era perfettamente funzionale. Poi certo, la critica tende a “classificare”, e non esiste grande autore che da queste classificazioni non sia diminuito, in un modo o nell’altro.
Un libro che sembra scritto quasi “in presa diretta”, senza tagli, montaggio o correzioni. Eppure, presumo, ci sia stato un gran lavoro dietro. La semplicità che non ha nulla a che fare con la facilità. Anche in questo, secondo te, Brautigan può definirsi un classico? Come lui stesso si definiva del resto.
Nella misura in cui dietro ogni apparente semplicità c’è un potente lavoro di ricerca e di cesello sì, direi proprio di sì. Quando arriva a sintesi potenti e cristalline come quelle di Pesca alla trota, di American Dust e di certe poesie e racconti, Brautigan. ha la forza e la durata dei classici.
Letteratura americana
minimum fax
2017
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