Nella fretta e nell’iper produzione editoriale non c’è, o c’è troppo poco, la curiosità di cercare e di soffermarsi. E di fare un passo indietro nel tempo. Le firme più famose della critica letteraria, quelle che appaiono in calce alle recensioni pubblicate da quotidiani e riviste, inseguono inevitabilmente le novità. Normale che sia così. Questione, anche, di mercato. Ma il ritmo imposto “dall’industria editoriale” rischia, spesso, di “mangiare” un prodotto librario con la stessa velocità con cui si mangia un gelato. Presto mangiato, presto dimenticato.
E in questa sorta di dimenticanza o di attenzione defilata, troppo defilata, restano impigliate figure di scrittori come Emanuel Carnevali. Eppure stiamo parlando di uno scrittore, di un uomo che nella sua seppur breve esistenza (di uomo e di scrittore) ha lasciato testimonianza di una scrittura feroce, furibonda, potentissima, rabbiosa. E, ai più, tristemente ignota. Poi ci sono editori come Adelphi prima e Fazi dopo che, almeno in parte, hanno tentato di colmare una lacuna, una colpevole dimenticanza, una triste ignoranza, nel senso etimologico del termine.
Quello di cui vorremmo parlarvi oggi è un libro che brucia come bruciano le sensazioni di chi lo legge o lo leggerà. Racconti di un uomo che ha fretta, uscito nel 2005, quasi trent’anni dopo Il primo dio, di Adelphi appunto, è un testo che sta tranquillamente al livello dei grandi della letteratura, riportandoci ad atmosfere e ad immagini che sanno di London, di un certo Orwell (per quanto riguarda gli elementi biografici) e della più potente letteratura americana per quanto riguarda una certa capacità di scavare nell’ipocrisia del “sogno americano”. Non a caso Ernest Walsh, poeta della lost generation, amico di Hemingway che gli dedicò praticamente tutto il tredicesimo capitolo di Festa mobile, disse di Carnevali: “L’America parlerà di Emanuel Carnevali come di un tipico genio americano.”
Un emigrante, Carnevali, anche se per pochi anni, in quell’America degli inizi del ‘900 che sembrava così carica di promesse. Emanuel è poco più che un ragazzo quando, per sottrarsi alla morsa di un padre autoritario e ostile, sbarca a New York, campando di umili lavori. Impara l’inglese decifrando le scritte delle pubblicità e, divorato letteralmente dalla furia di scrivere, scriverà proprio in inglese, portando alla letteratura americana una folata di aria nuova e diversa, più americano degli americani.
Gabriel Cacho Millet, curatore di questo Racconti di un uomo che ha fretta, ci scaraventa, da subito, in quella che è la straordinaria e struggente opera di un genio (parafrasando il titolo di un libro di Eggers), dicendoci: “Fu Ezra Pound nel 1925 a fare il nome di Emanuel Carnevali per la prima volta in Italia; e proprio in quell’anno Carlo Linati lo rivelò ai lettori italiani in un’ammirevole recensione di A Hurried Man, la raccolta degli scritti sparsi, riordinati e pubblicati a Parigi da Robert McAlmon, il libro che decretò la strana e parziale gloria del fiorentino che imparò l’inglese leggendo le insegne commerciali di New York. Dall’ingengo del man of American letters che, sedicenne lasciò l’Italia e si scoprì poeta lavando i piatti in un ristorante di Manhattan, si ripromisero belle cose anche altri interpreti di quella generazione che Gertrud Stein definì “perduta”: quei fuorusciti che negli anni ’20, delusi dal loro paese e vivaci oppositori dell’imbecillità dell’America, si accamparono sulla rive gauche della Senna per scrivere, dipingere, cantare e pure per bere e fornicare.” Carnevali l’imbecillità dell’America la scrisse da dentro, in un rapporto mai risolto che sarebbe fin troppo banale definire di amore e odio; ne Il primo dio Carnevali, tanto per capire, dell’America scrive: “Questa dunque era New York. Questa era la città di cui avevamo tanto sognato e questi erano i favolosi grattacieli. Provai una delle più grandi delusioni di tutta la mia vita infelice.” Ma, poco dopo, scrive: “c’è sempre una piccola luce accesa, che mi guidava attraverso l’America, questo paese al buio.”
Maria Corti, indimenticata e indimenticabile critica letteraria, filologa e semiologa, nel 1978 quando uscì la prima pubblicazione italiana di Carnevali, disse che “Carnevali è una bomba che esplode nella nostra cultura di oggi”. E noi, certo più modestamente di Maria Corti, riteniamo che una riscoperta e rilettura di Carnevali e di questo Racconti di un uomo che ha fretta possa essere ancora una bomba che esplode. Un genio disperato, a tratti arrabbiato e ostile, in bilico tra Italia e America, sia dal punto di vista della lingua sia dei paradigmi culturali che le due realtà rappresentavano. Un poeta che si trovò, davvero in poco tempo, a “combattere” con autori americani del calibro di William Carlos Williams e lo stesso Ezra Pound e a diventare anche condirettore della mitica rivista letteraria Poetry. E, dall’America, iniziò anche una corrispondenza con autori quali Papini, Prezzoli o Soffici, oltre che con Croce di cui fu anche traduttore.
Un continuo tormento di uno scrittore, di un poeta che si sentiva quasi respinto dalle sue radici italiane ma non completamente accolto nel suo desiderio/bisogno di essere considerato un letterato americano. Lo scriverà proprio su Poetry, dicendo: “Voglio diventare un poeta americano perché ho, nella mia mente, ripudiato i modelli italiani di buona letteratura. Non mi piace Carducci, ancor meno D’Annunzio. Degli autori americani ho letto, piuttosto bene, Poe, Whitman, Harte, London, Oppenheim e Waldo Frank. Credo nel verso libero. Mi sforzo di non essere un imitatore.” E, in queste parole c’è, non solo il poeta ma, anche, l’emigrato che vive sempre in bilico, tra bisogno di accettazione e rivolta.
Questo stupendo Racconti di un uomo che ha fretta è una impetuosa attraversata della poetica e della sensibilità di Carnevali. Pare di attraversare un bosco in fiamme, di camminare sulla cenere per poi trovare momentaneo sollievo prima di ripiombare nell’urlo rabbioso. Racconti brevi, alcune delle Pagine sparse, Diario bazzanese (Bazzano è il paese in cui Carnevali morì), Lettere al padre (tema quanto mai centrale per capire l’uomo prima ancora che lo scrittore). In queste prose c’è forse ancora più poesia o, sarebbe meglio dire, poetica “Carnevalesca”. Il racconto Melania Piano resta, secondo noi, una delle cose più belle che ci sia mai capitato di leggere, giusto per fare un esempio e il racconto Casa, dolce casa! è qualcosa che, su New York e sull’emigrazione forse non era mai stata scritta prima e, forse, non fu mai più scritta dopo: “Sono un immigrato e ho lasciato la mia casa. Sono senza casa e ne volgio una. Voi mi guardate con occhi cattivi, con occhi biechi; voi non mi guardate, voi sogghignate. Sono un immigrato che aspetta. Ne conosco a milioni di immigrati come me.” Questo Emanuel Carnevali, questa la sua scrittura. Questa la sua letteratura civile.
Letteratura
Fazi
2005
1995