Tutto quello che è un uomo, quarto libro di David Szalay ma primo libro suo tradotto in Italia, (e magnificamente tradotto, bisogna dire, da Anna Rusconi) è un testo che sorprende e inganna. Inganna perché mentre lo leggi hai la sensazione di avere tra le dita pagine di facile lettura. Quasi una partitura musicale in cui è la melodia a predominare. Poi, arrivati all’ultima pagina, lo chiudi e ti rendi conto di avere letto qualcosa, in realtà, di grandioso. Allora ne riprendi alcuni brani, vai avanti e indietro tra le pagine e afferri il senso di una prova di scrittura immensa. E realizzi che questo libro ha raccontato non solo tutto quello che è un uomo ma quasi tutto quello che è la vita.
David Szalay, canadese residente a Budapest, con il suo Tutto quello che è un uomo, ha realizzato quello che secondo il New York Times è uno dei libri da non perdere e con il quale è arrivato tra i finalisti del Man Booker Prize. Ma, al di là di questi, seppur prestigiosi riconoscimenti, questo è davvero un libro complesso, lieve e sostanzioso al contempo. Un libro che dimostra con una forza inarrestabile come la grande letteratura non abbia bisogno di trame soverchianti ma di scrittura altissima. Che qui c’è, a livelli, si può dire, dei più grandi classici. Echi del realismo ancorato alle cose eppure onirico di alcuni russi, suggestioni di alcune pagine del miglior Kundera, carezze malinconiche di un certo fatalismo magiaro. E, sullo sfondo e tutta attorno, un’Europa che sembra sempre sul punto di frantumarsi. Come i protagonisti di questi racconti.
Racconti in cui ci vengono dipinti e cesellati nove uomini, in nove diverse età della vita. Nove uomini che potrebbero anche essere lo stesso uomo. Alle prese con la solitudine di un momento di crisi, con lo sfaldarsi di ciò che sembrava certo. Con la voglia di scappare sapendo di non poterlo fare e di non poterlo evitare nello stesso tempo. Il sentirsi fuori posto e fin troppo “a posto”, l’essere immersi nel tempo, forse questione davvero centrale del libro. Un tempo che passa, incide e prosegue.
Un libro inno non alla gioia ma alla vita per quel che è, né bella né brutta, né facile né difficile. Solo fottutissima vita in cui il sesso, come i soldi o il potere o la paura stessa sono un tentativo escapista di imbattersi poi nella realtà delle cose. Non certo in un divino consolatorio. E tutto questo con una scrittura che incatena per la capacità di narrare il post moderno muovendosi nell’arena della classicità. Cosa rara, anzi rarissima.
Che si tratti del senso di estraneità e disagio dell’adolescente in vacanza con un amico, dell’uomo un po’ vigliaccamente terrorizzato dalla notizia di diventare padre, dell’oligarca russo a cui la vita (e forse lui stesso) sta per portare via tutto o dell’uomo anziano improvvisamente consapevole del tic tac del tempo, al centro di ogni cosa c’è sempre la vita, comunque. Con il suo violentare e offrire, accarezzare e schiaffeggiare. E l’immanenza che mai si stacca da terra. E pagine e brani di assoluta, tagliente e lucida scrittura, meravigliosa scrittura della cui potenza nulla va perduto nel gran lavoro di traduzione. Soffermatevi, per esempio, sul brano in cui l’autore riesce a farci sentire tutta la solitudine ghiacciata semplicemente raccontandoci il ronzio di un forno a microonde nella squallida sala da pranzo di un triste albergo di Cipro. Anche solo per quella scena dovreste leggere Tutto quello che è un uomo.
Racconti che potrebbero essere un romanzo, vista la tenuta e la coerenza stilistica e di sguardo che li unisce. Racconti che si concludo, ciascuno, quasi su un punto sospeso. Si concludono senza finire e noi, tramortiti, possiamo continuare a seguire i protagonisti non più tra le pagine ma tra i frammenti di ogni giorno. Perché quei racconti potrebbero benissimo essere indossati, come un meraviglioso ed elegante abito, da ciascuno di noi.
Letteratura racconti
Adelphi
2017
402