Questa recensione è stata pubblicata originariamente da Satisfiction che ringraziamo
Gli animali che amiamo
Di Alessandro Vergari
Un elefante di nome Wong vaga nella foresta. Piante lussureggianti coprono i resti di antichi insediamenti umani. La civiltà è stata riconquistata da una natura mutante ed ostile. Le ultime baracche ancora in piedi sono corrose, cadenti. Sul sentiero, compare una donnina “vestita di stracci militari”. Wong ha già incontrato altri esemplari della razza umana, tutti invariabilmente sporchi e maleodoranti. “Con ogni evidenza”, rimugina l’elefante, quella donna “viveva immersa nella solitudine, senza attenersi nella minima regola igienica, come spesso accade ai rappresentanti di quella specie”. Wong, dall’alto della sua maestà di elefante, ne ha compassione. Ma non può cedere alla richiesta, l’ennesima, che proviene da quella creatura disperata. Accoppiarsi. Altre stranezze da segnalare al lettore? Una. Il pachiderma non solo pensa ma ha anche il dono della parola. “Non mi accoppio con umani che sanno di sterco”. Questo dice Wong. L’esito del confronto è tragico.
Gli animali che amiamo di Antoine Volodine è un’opera letteraria rientrante nel genere del post-esotismo, composta da cinque intrarcane (due dedicati a Wong, tre a Balbuziar), e due shaggås (la prima shaggå combina i ritratti di sette regine sirene, la seconda è un lirico peana innalzato al cielo penosamente infinito). La coraggiosa casa editrice 66thand2nd presenta il romanzo al pubblico italiano, con la traduzione dal francese di Anna D’Elia. Doveroso segnalare la bellissima copertina, progetto grafico di Silvana Amato, ispirata a litografie tratte da un volume del 1841, Fauna caspio-caucasia nonnullis observationibus novis.
Come dite? Non sapete cosa sia il post-esotismo? Se è così, significa che non avete mai incrociato la penna dello scrittore francese. Inventore di surreali distopie. Volodine indaga il destino dell’uomo a disastro avvenuto, da un punto di vista metastorico o postumano. La sua scrittura oscilla tra incanto poetico e follia filosofica. Volodine si identifica con le sue creature letterarie. Non avete mai sentito nominare i sottogeneri citati, intrarcane e shaggås? Sono frutto della sua mente. Il fascino post-esotico della prosa deve molto alla coerenza stilistica che lo scrittore si impone. Un’estetica riconoscibile, quasi un marchio di fabbrica impresso su circa quaranta libri, uno dei quali, Terminus radioso, insignito del prestigioso Prix Médicis nel 2014.
Nel Commento allo Shaggå del cielo penosamente infinito, Volodine inserisce elementi teorici, appunti per un manifesto del suo modo di fare letteratura: “è un programma cifrato, che rinvia a un vissuto, a esperienze specifiche, a conoscenze che il testo non affronta, fosse pura in maniera allusiva… la Shaggå è stata ideata per evocare e al contempo depistare, proteggere e resistere a qualunque effrazione”. L’insolenza post-esotica, esteticamente elusiva, si è camuffata sin dalle origini, per ammissione dell’autore, sotto curiosi travestimenti linguistici: “dire tra sé e sé delle storie, mormorare o tuonare visioni violente, abitare territori paralleli, trasmettere immagini e atmosfere, provocare l’esilio e lo stato di trance, e lasciare però ai margini il nemico che continua ad aggirarsi da qualche parte tra gli ascoltatori”. Volodine manipola la materia narrata con il rastrello dell’ironia. Dall’altro lato dello specchio si nascondono verità inconfessabili. I protagonisti bislacchi dei racconti rimandano ai mostri allegorici di Hieronymus Bosch. La devoluzione della specie ci consegna ad un futuro senza prospettive, senza progresso, senza speranza.
La dinastia dei Balbuziar è condannata all’impotenza politica ed esistenziale. I re appartenenti a questa stirpe, mezzi insetti e mezzi crostacei, si districano tra vari livelli di sogno. Niente è reale ne Gli animali che amiamo, tutto è sostanza onirica. Balbuziar CCCXV si sveglia in uno stato fisico assai singolare: scopre di avere la corazza cucita a una roccia del litorale, a causa di una putrenza maligna di tipo due. Il suo trono è a pochi passi dal mare, una placida distesa mefitica pullulante di non-vita. Patire una condizione di immobilità, con la schiena completamente ileo-incastrata, è un problema grave per un re. Nessuno della sua stirpe sfugge a questa regola, nessuno dei suoi successori vi sfuggirà in futuro (ammesso che di futuro si possa parlare). Costretti a governare da fermi, esposti alla violenza predatoria di pirati fantasma e all’ingordigia di figli cannibali, i Balbuziar escogitano trucchi e magie, scivolando in dimensioni di sogno sempre più profonde.
“Un’amarezza tutta nichilistica e un tono derisorio caratterizzano la Shaggå delle sette regine sirene. Si avverte la volontà, da parte degli autori, di descrivere il caos della Storia e le sue convulsioni come una sorta di carnevale dove nulla ha più molta importanza”. Volodine utilizza commenti, utili espedienti, per segnare uno stacco metanarrativo tra sé e i racconti. Brodilla I, Meluzia II, Sosoglia III, Monocanta IV, Diodonta V, Eglefina VI, Anemona VII sono i nomi di sfortunate sovrane metà pesce, metà donna, o forse chissà cos’altro. Lo scrittore francese sfida le capacità immaginative del lettore, affidandosi a una certa vaghezza descrittiva. Le regine sono accusate di tentata sovversione nei confronti delle sacre istituzioni del regno dei Balbuziar e pertanto perseguitate, linciate, assassinate. Volodine riferisce sempre le fonti dalle quali avrebbe tratto le informazioni relative ai soggetti narrati. Ovviamente, autore, testi e note sono prodotto della sua fantasia. Un intrarcane può innestarsi in uno shaggå, o viceversa. Surrealtà e rigore filologico si intrecciano in un pastiche letterario unico, che rinvia alle cronache e ai bestiari medievali. Percorrendo i romanzi di Volodine, si ha sempre l’impressione di galleggiare in una bolla temporale, una realtà parallela dove le vanità umane si sfaldano nel grottesco.
Le creature ibride e misteriose di Volodine illustrano, con straordinaria inventiva, il nostro destino di decadenza, similmente agli animali disegnati da Grandville nell’Ottocento, specchio deformato dei vizi piccolo borghesi e segno dell’identificazione in atto tra bestie e ‘popolino’ (poi portata a termine da Walt Disney). Quando Balbuziar uccide la concubina Minesse dopo un amplesso, il lettore scopre che l’harem era solo un delirio del re, una fantasticheria di quelle “che corrompono il sangue e ingombrano i bronchi di escrescenze, di muffe e di miraggi”. Volodine ci consegna la mappa del nuovo mondo, dove l’uomo è stato espulso dal suo trono a vantaggio di forze superiori che l’umanità stessa ha innescato. Un disagio della civiltà stemperato da malinconica rassegnazione. Mutamenti climatici, singolarità tecnologiche, bioingegneria pervasiva, intelligenze artificiali interconnesse… Non resta che scommettere “sull’umorismo del disastro” per esorcizzare il dolore della scomparsa
Narrativa, distopia
66th and 2nd
2017
128., ill., brossura
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