Dimenticatevi le scintillanti mille luci di New York, dimenticatevi le bordate critiche dell’upper class di alcuni, seppur meravigliosi libri, di Richard Ford, DeLillo, Updike. Superate quella sottile linea oscura che separa gli Stati Uniti della costa orientale e immergetevi in un’altra America, in quel sud ovest defilato e più nascosto, di cui già avevano narrato giganti come Steinbeck o Faulkner. Andate, in questo caso, in Kentucky, nelle terre di nessuno di Chriss Offutt per conoscere un’America marginale solo nell’arrogante definizione che presume che esista un centro. Perché, se un centro dell’America esiste, è questo. E se vogliamo almeno cercare di capire cos’è questo paese, è questa la letteratura che dobbiamo avvicinare.
Nelle terre di nessuno è uno straordinario libro di racconti, erede di quella meravigliosa tradizione del “racconto americano” che, per una volta, non utilizza una classificazione come un ghetto. Nove racconti magnificamente tradotti da Roberto Serrai che ci scaraventano in una terra fatta di natura bella e brutale, di affumicatoi in cui si gioca a carte e si coltiva il rancore, di segherie abbandonate, di vite minuscole eppure epiche. Di esistenze sul crinale della violenza e della gestualità marcata.
Noi de Lottavo.it già più di un mese fa avevamo messo questo libro tra quelli da uscire a comprare immediatamente. E ora ci godiamo l’attenzione che Nelle terre di nessuno sta giustamente meritando anche da parte delle firme più mainstream della critica letteraria. Quelle che, a voce unica tranne Gian Paolo Serino, hanno urlato all’esordio miracoloso. Che esordio non è, come ci ricorda appunto Serino, dal momento che Offutt aveva già dato qualche indizio del suo valore letterario con una storia breve pubblicata all’interno di La super raccolta di storie d’avventura, Mondadori 2004 per la curatela di Michael Chabon, e precedentemente pubblicata in quella chicca che è la rivista McSweeney’s di un altro grande della letteratura americana che è Dave Eggers.
Un libro che magari può anche spiegarci perché l’ultimo inquilino della Casa Bianca sia l’imbarazzante Trump, ma che lo fa da prima di Trump, nella sua edizione originale. Il che dovrebbe dirci che, forse, qualcosa ci è sfuggito. E che solo gli angoli remoti dell’America, le loro voci più defilate, sono quelle in grado di raccontare davvero. Un racconto che nulla ha a che spartire con quella parola tanto di moda oggi, cioè story telling.
In questo libro c’è lo spirito americano più tragicamente autentico perché non edulcorato. E, non a caso, il titolo originale dell’opera era proprio Kentucky Straight, cioè un burbon a cui non venivano aggiunti coloranti o aromi. Quei coloranti e aromi che, troppo spesso, sono stati aggiunti proprio nello story telling che ci è giunto (a noi europei) sull’America. Qui di nascosto non c’è nulla. Neanche l’introspezione. Tutto è molto chiaro ed evidente. Ci sono le azioni. Perché, come scrive Offutt, proprio all’inizio del primo racconto Segatura, “…Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente.” Eppure, proprio come in ogni vita, in ogni luogo, soprattutto quelli più defilati, ciò che si vede non è la cosa più importante. E’ solo quella che sembra mettere ordine. E, da questo punto di vista, il primo racconto è veramente un capolavoro.
L’America, in questi racconti, appare davvero come il regno del visibile, in cui però il racconto e solo il racconto, può levare la polvere dalle bugie del sogno, il sogno americano. Però, a farlo, sembra davvero essere un racconto che arriva dalle terre di nessuno, la cui voce non è distorta proprio perché arriva da luoghi in cui “…non ci viene mai nessuno, casomai se ne vanno via.”
Eppure tutto sembra, in questi racconti, tranne che manchi la vita, in questi luoghi. E tanto meno pare mancare la voglia di riscatto. Perché il riscatto non passa attraverso l’abbellimento della realtà ma, semmai, attraverso l’apoteosi della sua durezza, a volte anche della sua crudeltà. E le terre di nessuno americane, di durezza e crudeltà, ne hanno molte. Ne sono intrise. Come sono intrise di natura. Che qui c’è, e tanta. Ho sempre pensato che, per conoscere davvero l’America, più che i libri di storia, serva conoscere il rapporto tra americani e natura. E qui è evidentissimo. Al punto tale che, se non fosse per qualche dettaglio, questi racconti potrebbero benissimo essere scritti due secoli fa, oppure oggi, ma anche domani. E non cambierebbe nulla.
Come non cambia nulla del più autentico “spirito americano”. Leggiamo, per esempio, alcune righe del racconto Affumicatoio “Aveva preso una vecchia carrucola da pozzo, l’aveva spacciata per un pezzo d’antiquariato e aveva fatto una serie di scambi con una carriola, due pistole, un videoregistratore, quindici traversine, una minimoto senza sella e una coppia di capre maschio. Poi aveva monetizzato tutto.”
Se davvero c’è un dio delle pagine belle (e noi crediamo che ci sia) pensiamo si sia seduto accanto ad Offutt durante la stesura di questi racconti, dalla scrittura pulita, materica, in cui anche le metafore sono “terrene” e così americane “Là sotto era più buio dello stomaco di una mucca.” Oppure “La signora allungò la mano e la poggiò sulla mia, e la sua era liscissima, più liscia del muso di un cavallo.” Se non è vita questa, davvero non sappiamo cosa possa esserlo.
Nelle terre di nessuno è una straordinaria elegia dei luoghi nascosti, delle vite “reiette” eppure non prive di redenzione. In cui il riscatto è nelle terre stesse, nel non riuscire a lasciarle o nel lasciarle per ritornarci. Un libro, questo, delicato e furibondo nello stesso tempo. Una voce fortissima che ci racconta come andare dove vanno tutti, parlare di ciò di cui parlano tutti, non è raccontare. Il racconto dice che l’America sconfitta è quella dei lustrini, delle multinazionali, della bugia che diventa verità verosimile. Poi c’è quella “non edulcorata” delle terre di nessuno.
Racconti
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2017
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