L’immortalità è il destino degli eroi della letteratura popolare, un’immortalità che paga pegno alle mode e ai gusti del momento, come dimostrano le recenti e ridicole derive action di Sherlock Holmes e Hercule Poirot (responsabili, rispettivamente, gli inglesi da esportazioni Guy Ritchie e Kenneth Branagh). Per James Bond il cammino è stato piuttosto contrario: dall’invincibilità più o meno (auto)ironica dei Connery / Moore al corpo violato e violabile di Daniel Craig, il primo Bond dello schermo a presentarsi sanguinante e con la pelle segnata da escoriazioni dopo un corpo a corpo. Ma James Bond è creatura prima letteraria che cinematografica e le recenti ristampe Adelphi dei romanzi di Ian Fleming ce lo ricordano.
Ian Fleming era uno scrittore degno di questo nome? Mi sono posto la domanda leggendo Goldfinger, uno dei romanzi più visionari e scattanti del Nostro e la risposta, per quanto mi riguarda, è affermativa, anche se credo sia necessario tener conto di tutta una serie di variabili.
I romanzi di Fleming occupano una loro nicchia nella narrativa di spionaggio, tutto sommato portandosi fuori, salve qualche raro caso (nella fattispecie Casino Royale, amato da Chandler e, pare, preso in considerazione per una possibile riduzione cinematografica addirittura da Alfred Hitchcock, e Dalla Russia con amore, il più controllato tra i romanzi dedicati alla spia) dalla spy story propriamente detta per collocarsi nei territori dell’avventura tout court. Erotismo ed esotismo sono le parole chiave. In più, al centro viene posto un eroe che, forse preceduto dal solo Mike Hammer di Mickey Spillane, ha la sua risorsa principale nel magnetismo erotico che emana. La capacità seduttiva di Bond, sintesi perfetta del supereroe anglosassone sognato dal suo autore, è la sua arma vincente nonché la grande novità del genere. Ci penserà, di lì a qualche anno, John Le Carrè, rigoroso e acuto, a riportare la spy story al proprio nucleo più infido e sfuggente. Con Fleming siamo dalle parti di una spregiudicata lotta del bene contro il male dove le scale di grigio riguardano certi aspetti della condotta esistenziale, in primis la disponibilità all’omicidio (la famosa licenza di uccidere) trascurando una seria riflessione geopolitica (che nel romanzo di spionaggio dovrebbe essere centrale). La lunga lista dei villain bondiani risulta sulla pagina ancora più pittoresca che sullo schermo. Fleming si sbizzarisce nella descrizione dei suoi cattivi, quanto e più di Chester Gould nel disegnare le malformazioni dei gangster affrontati dal suo Dick Tracy. Prendiamo Goldfinger, irriducibile nemico nel romanzo omonimo: “Quando si era alzato in piedi, la prima cosa che aveva colpito Bond era stata la sua totale mancanza di proporzioni. Era bassissimo, forse un metro e cinquanta, e alla sommità del corpo massiccio e delle gambe tozze da contadino, era piantata, quasi letteralmente nelle spalle, una testa enorme e, a occhio, perfettamente tonda. Sembrava che Goldfinger fosse stato assemblato con i corpi di altre persone. Niente era al posto giusto.”
Mefistofelico faccendiere, colluso coi servizi segreti russi, Goldfinger riesce a possedere le donne bellissime di cui si circonda soltanto dopo averle dipinte con una vernice dorata. Infatti Fleming ce lo descrive, fin dal suo nome “parlante”, come un vero e proprio feticista dell’oro. Il metallo prezioso è l’unico interesse di Goldfinger, tanto da evadere dalla sfera dell’avidità per proiettarsi su sfondi molto più intimi, a partire dalla sessualità. Sono i tratti esagerati, parodici e fumettistici tipici della scrittura fleminghiana. Lo scrittore inglese non perde poi occasione di disseminare il suo romanzo (in realtà tutti i suoi romanzi) di battute razziste verso qualunque cosa non provenga dall’Inghilterra e sorte migliore non tocca alle figure femminili, verso le quali la misoginia dell’autore è espressa senza riserve. Insomma, l’eredità di Fleming non sembra delle migliori, eppure, un po’ come accede per Agatha Christie, abbiamo a che fare con un grande creatore di archetipi narrativi. Su un romanzo come Goldfinger, ancora ci mangiano schiere di scrittori, spesso anche molto più bravi dello stesso Fleming. Costruito per macrosequenze che, col senno di poi, potremmo paragonare alle stazioni di un videogame, Goldfinger è un romanzo d’azione capace di affondi considerevoli. Le partite a carte e poi la sfida a golf, minuziosamente descritte e primo campo di battaglia tra Bond e Goldfinger: d’altra parte la descrizione del gioco d’azzardo e dello sport è un topos fleminghiano ed è una situazione che l’autore è in grado di gestire con la stessa forza con cui descriverebbe una sparatoria. Il bellissimo epilogo a Fort Knox, coronamento di un diabolico piano criminoso che, prima del twist finale, assume connotazioni funebri e angoscianti. Il tesissimo inseguimento automobilistico sulla strada per Ginevra. Tutto molto veloce, incalzante, amorale, e molto divertente.
Letteratura inglese, poliziesco, spionaggio
Adelphi
2017
295