Sicuramente più conosciuta, almeno al grande pubblico, per opere come Il cardillo addolorato o Il mare non bagna Napoli, la Ortese diede prova della sua qualità letteraria anche in opere giovanili come quelle di cui parliamo qui. I due racconti Il Monaciello di Napoli e Il fantasma apparvero quando la Ortese era poco più che venticinquenne su due riviste: Ateneo Veneto e Nove Maggio. Sono, questi, due racconti non privi di interesse per comprendere la successiva produzione letteraria della scrittrice e la sua poetica. Interessanti e fondamentali, si può dire, dal momento che vi sono anche qui alcuni elementi ricorrenti nelle pagine di Anna Maria Ortese, come un non nascosto elemento autobiografico, trasfigurato in un’interiorità narrante avviluppato in simboli e immagini spesso arcaiche ed estetizzanti. Ma non solo, pur in uno stile in cui si possono rintracciare echi e influenze romantiche, lo stile della Ortese anche qui usa l’elemento autobiografico solo come pretesto di un percorso analitico che sembra sfociare in un’ambientazione e in immagini mitologiche. Evidente tutto ciò soprattutto nel primo racconto Il Monaciello di Napoli in cui la voce narrante dovrebbe essere la nonna di scrive raccontandoci la storia di questo monaciello, appunto, piccola creatura a metà strada tra scugnizzo e spiritello bizzarro e ombroso, come ben definito nella quarta di copertina.
Mitologia e fiaba che appaiono subito al lettore in brani memorabili, in tal senso: “Se aggiungi a questo tutto quel complesso quasi miracoloso di smorfie, di gesti bizzarri, d’occhiate comiche o furibonde; quegli atteggiamenti di malinconia e di allegrezza o di sogno che assumevano, improvvisamente. […] Fanciullo mio, quei geni benedetti, quei divini fratelli del nostro scugnizzo, avevano anime di poeti.” I monacielli sembrano qui quasi il genius loci della stessa Napoli, descritta in questo racconto in maniera mirabile: “Le chiese si distinguevano per la loro cupola verde oro, per la facciata azzurra affollata di draghi, navicelle, marinari e colombi. Ed era salendo su alcuna di quelle cupole, così allegramente decorate, che l’occhio dello spettatore poteva abbracciare in un solo colpo la visione di Napoli con le sue famose località […] Verso sera, nel cielo di giorno, saliva la più bella luna del mondo, e a quel chiaro nascevano come per magia, attratte dal ventre della città, le più sottili, incantevoli musiche che io abbia mai udite.”
E se è vero, come afferma parte della critica, che era difficile (proprio per certi spostamenti leggendari e mitologici) rintracciare in parte dell’opera della Ortese i risvolti socio-politici in cui nasceva, qui, chissà se volutamente o meno, l’autrice realizza, da una parte una meravigliosa elegia allo spirito che sovverte (i monacielli stessi e la stessa fiaba) ma anche una critica al potere, qualunque potere che tale spirito sovversivo soffoca: “[…] fra quella gente gaia, socievole e affettuosa, crescevano e si nascondevano come funghi certe creaturine di cui solo la tradizione potrà parlarti senza scrupolo e falso pudore e non, credo io, lo storico troppo serio e facile a spaventarsi e fuggire di fronte ai vapori fantastici della leggenda. […] L’ingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso colpevole entusiasmo a demolire la credenza nell’irreale ch’era tanta parte della nostra vita; e infine i provvedimenti di Santa Chiesa, che mettevano in guardia i fedeli contro questi spiritelli diabolici.” Parole non certo prive di spessore critico e realistico.
Realismo non del tutto assente, in questo Il Monaciello di Napoli, che viene raccontato con quello che, spesso è definito (talvolta abusandone) come realismo magico. Ma qui, così è perché è proprio con realismo che viene raccontata una leggenda. E questa “sovrapposizione” sottende a tutte le pagine in cui l’elemento visionario viaggia su una scrittura in cui il lirismo tesse le fila. E tutto ciò preannuncia quello che sarà un “marchio” della scrittura della Ortese in cui quelle che sembrano “altre dimensioni” non sono maldestre evasioni ma, semmai, modi per cercare di comprendere il mistero della vita e di reclamare il primato dell’affabulazione sulla logica.
Tutti elementi ancora più evidenti, se possibile, nel secondo racconto, Il fantasma. Racconto onirico in cui l’autrice mette in scena, niente meno, che una sorta di dialogo con la Morte. Presentataci come un cameriere di nero vestito: “Era alto, magro, vestiva elegantemente di nero: abbagliante era lo sparato della sua camicia di seta, l’argento dei bottoni da polso, il tovagliolo, perfettamente inutile, posato Dio sa perché sul suo braccio sinistro. […] l’orribile scheletro, dopo aver gettato una occhiata fuggevole a un suo orologino in forma di falce […] Anche queste pagine sono gravide di immagini simboliche e di dettagli che, invece di rallentare il racconto, lo concentrano, dando anche qui, riflessioni profondamente concettuali sotto vestiti immaginifici.
Troverete in questo racconto, trasfigurati e come calati in un mare di inquietudine e rimpianto, molti elementi biografici della Ortese, come il rapporto con il padre, le sorelle o la morte del fratello. Anche in questo racconto vi è la memoria che straripa da quelli che possono essere ricordi personali per diventare quasi indagine cosmica. E cosa c’è di più cosmico di un dialogo con la morte, chiamata, di volta in volta, la mano invisibile, nullità, incompresa. Qui, forse più ancora che nel precedente racconto, appare evidente la differenza che, per la Ortese, hanno i concetti di ricordo e memoria, che non può non essere corale. Ecco, allora un immaginifico incontro con i suoi cari Parenti (lo scrive proprio così, in maiuscolo) in un susseguirsi di immagini misteriose e allegoriche.
Sono racconti che non ho paura a definire barocchi proprio per il loro indagare, non logicamente, sul mistero e su ciò che non si comprende. E lo fanno cucendo parole metaforiche e ossimoriche in cui l’elemento poetico vuole sempre prendere il sopravvento sul realismo, sconfinando quasi in un clima paganeggiante. E’ una voce, quella presente in questi due racconti, non priva di alcune ingenuità ma molto forte e delineata. Una voce che poi impareremo ad amare, per esempio, in quel capolavoro che è Il cardillo addolorato.
Letteratura italiana
Adelphi
2001
137