Il primo lavoro letterario del giovane Francesco Teselli (1989, Massa di Somma – NA -) sembra possedere la nitidezza delle scoperte e delle passioni di un promettente scrittore di successo. Si avverte fin dal principio un desiderio di esporre quanto più chiaramente possibile chi sta scrivendo la storia che ci si apre davanti, piuttosto che introdurre un vero e proprio personaggio chiave.
Sì, perché Le sensazioni del signor Asterisco è anzitutto una confessione, o meglio un diario, un exploit delle proprie aspettative (di Teselli così come di qualsiasi aspirante scrittore), oltre che definirlo un romanzo d’esordio. L’autobiografia quindi prende forma sin dalle prime pagine e si avverte che ci troviamo di fronte a una presentazione sincera di una figura veritiera e neanche troppo comunemente inventata. Il protagonista giovane, tormentato, depresso, caffeinomane e incline all’alcol tenta con tutti i suoi sforzi filosofici di scrivere un romanzo costruendo letteralmente, un mattone alla volta, l’esposizione e la trascrizione di sensazioni che rappresentano i primi capitoli dell’opera in corso, ma che purtroppo non riescono a tessere un filo logico, una qualsivoglia forma di racconto lineare e ben presto rinuncia quasi all’ambizioso progetto.
Si abbandona perciò di nuovo alla sua scialba quotidianità, dove intanto qualcosa succede: sarà l’incontro con due bizzarri personaggi la chiave della sua ricerca spirituale, la stessa che lo spinge da giorni all’ardua impresa. Uno di questi è un clochard che divora un libro dietro l’altro, oltre allo scrivere poesie sul retro di scontrini fiscali che lascia in giro per la città e, dopo le varie citazioni di Teselli alla Beat Generation, non ci possono che venire in mente Allen Ginsberg o addirittura Gregory Corso nel tramonto della sua vita.
L’altro è un cantautore girovago senza dimora anch’egli, che con la sua chitarra accompagna canzoni che spiegano il senso dell’esistenza spesso oltraggiata dai beni comuni, che a tratti ora ricorda Elliott Smith, ora Kurt Cobain, ora un giovane De Andrè. Piccola osservazione: fu proprio De Andrè che con Il Bombarolo s’ispirò a Gregory Corso, quindi i conti tornano, no?
I nuovi compagni, insieme al protagonista, formeranno un trio bizzarro che con i loro spunti filosofici ci ricordano quasi quello di Easy Rider, il film cult del 1969 di Dennis Hopper, in cui il nostro Signor Asterisco potrebbe calarsi senza troppi ripensamenti nella magnifica interpretazione di Jack Nicholson, probabilmente dei tre il più riflessivo.
Accantonata quindi la mancata riuscita del romanzo il nostro eroe si mostra più per ciò che è, rispetto a ciò che avrebbe potuto essere attraverso la scrittura, il suo romanzo verità.
Ciò che era presentata come una semplice parentesi di auto-derisione prima di riprendere il filo delle sensazioni, quindi dei capitoli che avrebbero formato il romanzo, ora ci viene mostrata come la riuscita del romanzo stesso.
Anzi, l’opera narrativa non vuole più mostrarsi quanto tale: la storia che si svolge intorno ad essa acquista sempre più sostanza trasformandosi in un romanzo/non romanzo, in un’auto-celebrazione quasi non voluta, soprattutto quando entra in scena il personaggio chiave, una fascinosa attrice di teatro che conquisterà il cuore di Asterisco e darà una svolta decisiva alla riuscita del tutto, che si consideri come si voglia, regalandoci un finale davvero inaspettato e gradevole, dove i marosi che inondano di inquietudini i pensieri di questo giovane possibile e strampalato Woody Allen si placano nel momento in cui trova la sua Annie, facendo tirare un sospiro di sollievo a chi invece crede di tuffarsi in una chiusura disastrosa.
Particolare complimento di chi scrive è rivolto appunto al finale: sembrerebbe quasi una rivincita inaspettata de Il lamento di Portnoy o, davvero senza inoltrarsi in troppe citazioni, sembra farci rivivere le complesse evoluzioni di molteplici personalità, addirittura fisiche, così come le abbiamo incontrate ne La Zona Morta di Stephen King. Anche lì si parlava di scrittori e…vi ho detto troppo?
Non tanto quanto si possa davvero godere nella brillante, estasiante anche se spesso volutamente barcollante, quindi seducente scrittura di un giovanissimo autore impaziente di crearsi un meritato spazio nell’ universo di sensazioni fin troppo rarefatte al giorno d’oggi.
Incontro Francesco Teselli ad Avellino in un freddo e umido pomeriggio inoltrato di fine anno, al Circolo della Stampa, dove presenta il suo primo lavoro a un folto numero di lettori. Nonostante la giovane età si dimostra una persona ben educata, affabile, professionale e preparata.
Francesco, che cos’è per te la scrittura?
Innanzitutto, non me l’aspettavo. E non è la solita tiritera, io non mi aspettavo davvero di scriverlo, questo libro. Inizialmente mi è servito per liberarmi di tutte quelle cose che nel corso delle giornate non mi andavano giù. Pensavo, invece di tenermi tutto dentro lo spiattello qui, così non sono costretto a metterle da parte nella soffitta del mio stomaco. Quelle, le cose che non ci piacciono si riproducono, si moltiplicano, poi si rischia una rivolta. A me, sinceramente, non andava di essere colonizzato dai rospi che avevo ingoiato e allora mi sono messo a scrivere. Potrei dire in maniera semplicistica che scrivere per me è una forma di catarsi, e fondamentalmente è così. Un modo per scrollarsi di dosso le sensazioni negative, per trasferirle quasi. Il signor Asterisco, però, annota tutto, anche le sensazioni belle e forse l’insegnamento più grande che mi ha dato questo romanzo sta tutto qua. Ho sempre pensato che chi scrive immagina la vita, chi sta bene preferisce viverla. Forse però chi riesce a trovare il giusto equilibrio in questo mondo che di equilibrato ha ben poco, deve sentirsi investito di una responsabilità vitale, e cioè quella che se c’è qualcosa di buono, se c’è un modo, una strada, una soluzione bisogna dirlo. Fare in modo che più persone possibili lo sappiano. Per me questo è scrivere: catarsi e condivisione.
In che modo hai capito che stava per giungere il momento di dare vita ad un romanzo?
All’inizio non c’era l’idea di un romanzo. Era, più che altro, un “diario tormentato” di sensazioni. Ero convinto che la mia vita non sarebbe mai cambiata e quindi, quasi per noia, buttavo giù qualcosa, ma senza alcun progetto. Tant’è vero che alcuni “tentativi di sensazione” sono cose che ho scritto addirittura anni fa. Poi, un giorno, conosco lei. La mia lei. Non è un eccesso di romanticismo, ma la verità quando dico che tutto cambia. Cambio io, ma soprattutto cambia la mia vita e la mia intenzione di viverla. Cambiano i progetti, le aspettative. Insomma, comincio a vivere davvero. Il giorno del nostro primo anniversario le regalo questo mio diario di esperienze. Lo faccio rilegare quasi per scherzo, a forma di libro. Per copertina, un quadro di Kandiskij che per me è il maestro del caos, e quel quadro lo tratteggiava alla perfezione, tutto il mio caos. Lei mi guarda e mi fa “perché non continui e ci scrivi un romanzo?”, io resto di sasso. Io, un romanzo? Alla fine una trama stava già venendo fuori e si sa, l’arte non fa altro che imitare la vita per cercare di migliorarla il più possibile. Ecco che cosa dovevo fare, arte e vita. Alla fine, qualcuno lo stava già facendo per me. Io non ho fatto altro che trascrivere tutto. Senza schemi né scalette ho scritto questo libro, inseguendo una trama che in realtà inseguiva me. L’ho fatto insieme al lettore, a chi speravo un giorno potesse leggerlo. Non attraverso i fatti o le persone, ma dentro le sensazioni che compongono una storia
Nella tua opera fai chiari riferimenti alla Beat Generation. Quanto credi che questa corrente abbia influenzato le generazioni future?
La Beat Generation sicuramente ha influenzato tanto me. Come un mantra io spesso ripeto “Beat come ribellione, Beat come battito, Beat come ritmo”, che è un vecchio ritornello degli anni ’50. E sicuramente tutto questo ha portato ai meravigliosi anni ’70, tutti figli di mamma 1968. Ribellione, battito e ritmo sono state le colonne di quella rivoluzione culturale che ha scardinato le ideologie, a cui noi tutti dobbiamo tanto. Molte cose, anche le più scontate, oggi non sarebbero nemmeno concepibili esattamente come non lo erano negli anni ’40 e le nuove generazioni, purtroppo, neanche lo sanno. E se è così è grazie ai quei pazzi di cui parla Kerouac, che esplodono come ragni tra le stelle, a Ginsberg, a Borroughs, a Bob Dylan e a tutti gli altri che un bel giorno hanno deciso che basta, non si può più andare avanti così, e si sono messi a cantare in mezzo alle strade, a scrivere parole proibite. In tanti hanno seguito quelle orme, alcuni anche assorbendo quegli insegnamenti in maniera inconsapevole. Forse però il problema è proprio questo: prima, a muovere le loro anime era quella ribellione, quel battito, quel ritmo. Oggi la nostra barricata è lo schermo del computer.
Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo fortemente autobiografico a tal punto da svelare al lettore ciò che in realtà nascondi agli occhi meno attenti?
Il fatto che quando tocchi il fondo puoi solo risalire o restare a terra. Non te lo nascondo, come non lo nascondo a nessuno perché ne parlo tranquillamente nel libro, che la mia salvezza è stata lei. Lei e qualcosa che forse c’era dentro di me e che aveva bisogno solo della persona giusta per venire fuori. Molte delle cose che ho scritto, ancora non saprei dirle ad alta voce. A lei però le ho dette, nascondendo il volto tra le sue spalle, scomparendo in un abbraccio. Quando hai qualcosa da dire e queste sono le condizioni, devi trovare un modo per comunicare. Io per anni mi sono nascosto con il teatro, facendo parlare qualcun altro al posto mio, sostituendo le emozioni. Poi, quando ho sconfitto i miei demoni, li ho combattuti con le parole. Con le mie parole, stavolta.
In futuro ti vedi di più come scrittore o come testimone/mentore di una società che sta perdendo di vista dei fattori così importanti come la cultura?
Dal punto di vista professionale, spero scrittore. Inoltre, mi piacerebbe insegnare nelle scuole, per cui forse il ruolo che vorrei interpretare è chiaro già solo dichiarando questo. Ho capito che ho bisogno di comunicare. Questa è una consapevolezza importante perché ha a che fare, probabilmente, con un modo tutto personale che ho scovato per vivere questa vita. La cultura è un fantasma che va coccolato per fare in modo che possa rinascere, specie nei ragazzi. Un po’ come Casper, il film! Ha sempre qualcosa d’irrisolto, la cultura. Ma forse proprio per questo non può mai appartenere solo al passato. Anche noi siamo stelle del nostro stesso trascorso, quello che vediamo noi e conoscono gli altri oggi, non è altro che la luce di tutto ciò che ci è capitato lungo il tragitto della nostra vita. E questo vale anche per le scoperte che l’uomo ha fatto, per il progresso, la tecnologia, la politica che ha sviluppato, la filosofia con cui si è interrogato, la letteratura che è servita a raccontare tutte le storie che altrimenti si sarebbero perse per sempre. Non possiamo fare a meno della cultura, perché anche quel che siamo lo dobbiamo a questo grande contenitore che chiamiamo così, dentro cui passato e futuro si rincorrono senza prendersi mai. Un domani, semplicemente mi piacerebbe poter dire tutto questo davanti a una classe di ragazzi o scriverlo in un libro. Oppure, perché no, entrambe le cose.
Narrativa italiana
Editore Eracle
2017
192