Anche chi non è appassionato del genere troverà motivi per entusiasmarsi alla lettura di questo libro. Perché Warlock, di Oakley Hall, splendidamente tradotto da Tommaso Pincio, non è un “semplice” western quanto, e molto di più, un’opera di narrativa a tutto tondo. Anche, e soprattutto, perché del western sovverte stereotipi e linguaggio. Cosa non scontata se si pensa che fu pubblicato nel 1958; e quelli erano anni in cui questo genere letterario si trovava decisamente all’apice, anche perché, come sostiene giustamente Paolo Simonetti, in anni di guerra fredda, le epopee western e le gesta dei cowboy, erano un ottimo modo per distrarre le persone da ben altri problemi.
L’edizione che ci troviamo tra le mani non è una primizia, neanche in Italia. Questo corposo testo fece la sua comparsa già nel 1982 quando l’editore La Frontiera lo editò in due volumi nella collana “I grandi autori western” con il titolo Ultima notte a Warlock. Non a caso visto che un anno dopo la sua uscita negli USA e la candidatura al Premio Pulitzer, ne venne realizzata una riduzione cinematografica proprio con quel titolo e alla cui sceneggiatura partecipò lo stesso Hall. Ma della lontana pubblicazione italiana si sono perse le tracce almeno fino a quando SUR edizioni, su insistenza dello stesso Pincio, ha deciso di riproporlo. Operazione nostalgica e anacronistica? Proprio no. Perché qui ci troviamo al cospetto di un’opera letteraria di altissima qualità.
Nella ridda di generi e sottogeneri che costituiscono il variegato mondo delle definizioni letterarie, Warlock occupa un posto di primordine in quello che viene chiamato post-western di cui, tra i più famosi esponenti, troviamo per esempio scrittori come Cormac McCarthy. Un libro che cattura per la capacità dell’autore di sovvertire e smontare molti dei clichè del genere sia per quanto riguarda la descrizione dei personaggi sia per quanto riguarda l’uso di uno stile di volta in volta ironico, riflessivo, galoppante, fuori canone.
L’errore che non bisogna commettere, leggendo quello che è stato definito anche un western revisionista, è quello di pensare di rintracciarvi elementi di analisi o di critica all’America di oggi. Ma quello che vi si trova, e molto ben raccontato, è il substrato culturale dell’America di oggi. Perché non è vero che l’America non ha storia. Ce l’ha eccome. Ed è proprio quella raccontata in queste travolgenti 685 pagine.
Il libro si svolge quasi interamente a Warlock, cittadina mineraria che sta crescendo e in cui molti hanno ravvisato la reale Tombstone di Wyatt Earp. Qui, tra minatori che lottano per un salario migliore, saloon, sale da gioco, cowboy rancorosi, puttane e pistoleri, si snoda un copione che ci fa capire subito che ci troviamo davanti ad una trama e ad una costruzione molto più articolata di quanto si pensi. Parte da qualcosa di molto classico: in città la legge non esiste o, se esiste, è quella dettata dall’arroganza e dalla violenza di un ranchero e dalla sua banda. C’è bisogno allora di qualcuno che ristabilisca l’ordine: l’uomo forte, il pistolero con le colt dal manico dorato a cui il Comitato Cittadino affida il compito di far rispettare le regole. Sì, ma quali? E già qui ci si trova di fronte al sovvertimento del luogo comune buono/cattivo, giusto o sbagliato. Perché a Warlock niente è così ben definito e, in fondo, non c’è nessun personaggio che non abbia un fondo di ambiguità. Ce lo dice fin dalle prime pagine l’autore quando scrive: “ […] la Ragione reca in sé i germi del Torto. […] Perché che cosa sono la Ragione e il Torto, in fin dei conti, se non un punto di vista?”
Punti di vista che cambiano in continuazione, anche dal punto di vista della costruzione narrativa in cui racconti in prima persona si alternano ad altri in terza persona e ad altri ancora costituiti da una sorta di controcanto fatto da quello che dovrebbe essere il diario di Henry Goodpasture; che funziona non solo da momentanea presa di distanza dagli eventi raccontati, ma proprio come incarnazione del comune sentire della piccola comunità di Warlock e dei suoi principali interessi, che sono quelli dei commercianti. E anche questo “dettaglio” non è trascurabile, né dal punto di vista storico né, tantomeno, da quello sociale, se vogliamo chiamare così. Infatti: “[…] il Comitato Cittadino aveva il nome, forse più appropriato, di Comitato dei commercianti.”
Le vicende del leggendario pistolero, Clay Blaisedell, del violento ranchero Abe McQuown, del vicesceriffo Gannon sono solo una delle tante metastorie di cui si compone questo libro in cui citazioni colte si mescolano a dialoghi che sono topoi che si abbracciano a brani del tutto sorprendenti se ci si ferma all’idea più classica del western. In Warlock vi sono molti sottotesti tra cui il rapporto uomo-donna che viaggia in una sorta di mancanza di “grammatica dei sentimenti” con gli uomini abituati più alla solitudine o al rapporto con il loro cavallo e le donne divise tra angeli e puttane. Ma anche, e lo ha sottolineato lo stesso Tommaso Pincio, una sorta di omosessualità latente “mascherata” da legami di amicizia molto forte, talmente forti da divenire, quasi, l’unico criterio per stabilire cosa sia giusto e cosa non lo sia.
E questa “ambiguità”, questo rifuggire dai contorni netti, è uno degli elementi più interessanti del libro e ben rappresentati dalla stessa figura di Blaisedell, che sembra quasi costretto a fare l’eroe ma non privo di una buona dose di tormento. Un uomo quasi costretto dal bisogno di eroi della comunità: “Nella sua luminosità, ci genuflettiamo al cospetto dell’Eroe, ci crogioliamo al calore delle sue Gesta, lo esaltiamo, ne sbandieriamo gli elogi, lo divinizziamo […] Siamo una schiatta di amanti delle tradizioni insediatisi in una nuova terra.” Ambiguità da cui non esce nemmeno la stessa Warlock, cittadina vera protagonista del libro. Una creatura in divenire, città di frontiera, città senza lo statuto di città, luogo di transito e di trasformazione, di cowboy e di terreni e bestiame per cui si uccide. Il tutto senza gli spazi aperti dei film western, senza indiani e frecce. Warlock è tutto ed è niente, è “un turbolento angolo del creato.”
Quasi metafora dell’America di allora in cui sono già presenti i fondamenti di quella odierna: “Abitiamo un Paese e un’Epoca in cui un impiegato di banca o qualunque lavoratore può diventare un famoso fuorilegge e ritrovarsi santificato nel giro di poco in canzoni e storie degne di Robin Hood, un paese in cui bastano venti dollari per diventare leggenda comprando una pistola in un’armeria qualsiasi.”
Warlock è un libro in cui il concetto di frontiera non è solo geografico ma sociale e psicologico. E, come tale, sfumato, ambiguo, frammentato. Proprio come i personaggi, il loro muoversi nel mondo, il loro mondo. Proprio come se la stessa Warlock fosse il centro di tutto, il metro di misura di tutto, pur sentendo in qualche modo che non è così. E allora le sue vicende, si capisce, diventano in questo senso metastorie, perché: “Che dissimulatori siamo, con quanta dedizione tentiamo di occultare i moventi al fondo della nostra anima, di chiamare virtù le nostre ragioni più abiette, di definire angelica quella parte di noi che negli altri ci appare palesemente diabolica, e rettitudine quel che negli altri è ingordigia.”
Perché, in fondo, la potenza di questo libro, il suo sovvertire luoghi comuni e stereotipi di genere è tutto in una frase di quella che è la voce della comunità, il diario di Goodpasture: “Prendetemi tutto ma non i soldi. Con i soldi posso ricomprarmi quel che mi serve, il resto non ha valore.” Questa è la frontiera.
Letteratura americana
Edizioni SUR
2016
685