I Cani Sciolti sono tornati, ma che siano in gran forma o in una condizione discutibilmente positiva, questo resta da provarlo, soprattutto perché così come si inizia, parlando del ’68 inteso sia come rivoluzione studentesca che morale, utopica, sessuale o qualsivoglia intendere oggi, al suo primo cinquantenario, quindi con la volontà di crearsi uno spazio proprio nell’universo ideologico, così si finisce, ed è proprio per questo che il discorso letterario (epistolare, anche) iniziato nel 1973, ha un seguito.
Ma non si tratterebbe di un sequel, né di una trama che si preannuncia come il secondo atto di ciò che fu già scritto; è piuttosto un compito che l’autore si è imposto per continuare la sua esposizione contestuale di coloro che ieri lottavano contro il sistema che, inesorabilmente, oggi li ha inglobati.
Il professor Renzo Paris (Celano, 1944, narratore, poeta e saggista) ci riabbraccia col suo ultimo lavoro, Bambole e Schiavi (Elliot), dimostrando sempre le aspettative che ci sono state fedeli negli ultimi anni, esponendo il tutto con una sorpresa particolarmente inaspettata: una storia inglobata in una storia, due cerchi concentrici le cui circonferenze non sempre appaiono equidistanti, come immaginando una sfera da cricket che ora resta ferma, ora rimbalza sulle pareti di un fondo di una tinozza, dalle cui sonore detonazioni ci si desta, ritornando all’origine della narrazione.
Francesco Cosini, il protagonista per cui Paris prende in prestito il cognome dello Zeno di Italo Svevo, è un personaggio tipico e atipico della società moderna, professore (anche lui) in pensione, narratore (anche lui) ma con discutibili risultati, settantenne (anche lui), è ancora alla ricerca di una donna che gli faccia dimenticare lo sfacelo che gli ultimi anni hanno infierito sul suo corpo decadente, così come sul suo animo martoriato dai sensi di colpa, sfortunato spettatore di amori surreali, impossibili; ha tre matrimoni alle spalle, tutti terminati per incompatibilità, ma qualcosa ancora gli suggerisce che nulla è perduto, che non è giunta ancora l’ora della resa sessuale.
L’incanto di quella voce antica che aveva ispirato i miei libri si era sotterrata, era andata in pensione anche lei, non mi destava più, sospira Cosini, anche se si sente ancora rinvigorito dal suo forte ego post sessantottino, combattivo, dal portamento fisico di un bracciante, più che di un intellettuale nella piena coscienza di un mondo la cui globalizzazione ha incagliato gli ideali, gli stessi a cui aveva aderito, nella sua trama suadente e appiccicosa del neocapitalismo di cui parlava Pasolini, proprio quello che avrebbe scavalcato gli ideali del socialismo moderno, intesi nei nuovi ideali marxisti-leninisti di mezzo secolo fa.
L’ultima fiamma del professore, Elsina, è una trentenne focosa e in cerca di avventure con uomini avvenenti, fascinosi, della cui età matura non si lascia impressionare, proprio come quella di Cosini, che si lancia in funamboliche avventure, un cocktail di finte spensieratezze giovanili mischiate a posticci vigori potenziati dal Viagra, che gli donano la libertà di vivere una relazione che abbia dei fini più fisici che morali.
Ed è proprio la moralità, invece, che detta le regole in questa infatuazione; la condizione precaria culturale, soggettiva ed economica che attanaglia due generazioni messe a confronto, in cui l’ultima di esse attacca la prima accusandola di essersi impossessata di ideali che poi sono sfociati nel finto perbenismo che camuffa l’imborghesimento dei suoi soggetti, cioè proprio quelli che hanno creato l’odierno sistema burocratico, causa dei rallentamenti professionali dei giovani d’oggi.
Inizia così una lotta inferta con colpi verbali e pelvici, qualcosa che porta soltanto all’allontanamento inevitabile, che nella coscienza di Cosini (Zeno?) ha una reazione naturale: il distacco da ciò che ancora una volta lo farebbe soffrire, senza destarlo dall’incontrollata depressione post fine matrimonio che ancora lo stordisce.
Eh, no. Qui ci vuole di più.
Il professore parte così alla volta di Vienna, per un viaggio che lo riavvicini a sé stesso, oltre che il più vicino possibile alle teorie di Freud, la cui casa, proprio in quella città, potrebbe per lui significare l’ingresso vero e proprio nelle circostanze ambigue che lo affascinano e che poi lo abbandonano, che non gli donano ancora quella spinta nello scrivere, nel mostrarsi ciò che si è davvero attraverso uno stile, un’introspezione, una cultura volutamente esposta.
Fa pensare ciò proprio al pensiero freudiano, in cui il padre della psicoanalisi spiega: sorge un conflitto…la frustrazione interna, quindi, è potenzialmente presente in ogni caso, solo che non entra in funzione perché la frustrazione esterna non le ha spianato la strada.
Come può, dunque, realizzarsi il sogno di un uomo visibilmente attempato ma con la forza emotiva di un giovane?
La risposta giunge con Dana, una ragazza biondina proveniente dai Carpazi, esile ma con le forme perfette, sinuose e morbide, con un fascino irresistibile che smuove la frustrazione interna del professore, che finalmente abbatte le barriere dell’esterna, seppur con una primordiale difficoltà, donando al lettore una sorpresa, un colpo di scena, una narrazione nuova, come se si dovesse rimarginare tutto ciò che è stato scritto poc’anzi, annullando il suo contenuto a tratti depresso, catastrofico che Paris costruisce attorno a Cosini.
Dana fugge da un omicidio commesso da qualche giorno, e il mistero s’infittisce ancor più quando prende riparo nelle cure un po’ paterne, un po’ perverse del professore, nella cui mente leggiamo: soffrivo dell’umiliazione della vecchiaia incipiente…quello era un addio definitivo alla giovinezza, che io riempivo pur sempre di parole…non volevo approfittare di lei, mi crogiolavo in una impotenza tutta visiva.
E qui Svevo ricompare, e nel romanzo Cosini immagina il seguito de Il buon vecchio e la bella fanciulla del grande autore triestino, ma con un’interpretazione del tutto personale, quella del vecchio che sogna di divorare le parole della gioventù, con la figura dello scrittore (la frustrazione interna) che finalmente ricompare e prende ispirazione dalla storia che Dana gli racconta, e da cui intende la potenzialità della donna che gli sta dinanzi, chiusa con lui in una stanza d’albergo viennese, che ora viene svelata al lettore in tutta la sua ideologia sacra, come una figura mistica o mitologica, un’icona, la cui persona non potrebbe in alcun caso essere violata con il desiderio sessuale e primitivo di un uomo avanti con gli anni.
Dana narra le sue disavventure che iniziano da una famiglia disastrata, ai piedi dei Carpazi, e proseguono con la continua lotta emotiva e personale verso un’identità morale, sociale ed economica, seppur guadagnata anche con lavori non proprio onesti per il suo corpo esile e delicato, oltre che con mansioni umili ma inevitabili, in una Roma fascinosa e scabrosa allo stesso tempo, vittima di ideologie tipiche dell’occidentalismo dirompente.
Il professore Cosini ascolta, trattiene, incamera le storie e memorizza: ero diventato un ventriloquo, guardavo il mio salotto con gli occhi di Dana, avevo le sue pupille.
Esce così dai diktat del conformismo, dello squallore represso in un animo ormai poco nobile, e dal rapimento sensoriale e non fisico del’avventura viennese prende forma il suo tanto agognato capolavoro, la storia di una fanciulla, poi ragazza, poi donna che combatte con le sue forze per ottenere credibilità in un mondo che ancora non le appartiene, la cui veridicità drammatica ottiene la giusta ricompensa nelle parole eleganti di un uomo colto che finalmente spegne il desiderio sessuale, accendendone uno extrasensoriale ed emotivamente più valido, atto nella ricompensa dei propri sentimenti.
Volevo che la con la mia vita finisse quella del mondo e senza accorgermene stavo scrivendo il romanzo del vecchio e della fanciulla (racconto incompleto di Svevo), e anche se il finale della narrazione lascia intuire un ritorno alle origini depressive del protagonista che si sente frustrato dall’incapacità di concepire un seguito, generata dalla fuga improvvisa della ragazza, non possiamo non pensare alla finale degenerazione emotiva dell’Humbert di Lolita, il capolavoro di Nabokov, in tutto il suo splendore, mai una volta volgare o scabroso, mai che lasci intuire una scena intrisa di forte erotismo, ma che allo stesso tempo sveglia i sensi di chi legge, trasporta con la sua carica sessuale nonché elegante verso l’adorazione del sacro, dell’idolo donna nella sua contemplazione di una delicatezza ancora puerile.
Siamo liberi. Là fummo congedati, dove pensammo di essere più accolti. Timorosi aneliamo ad un sostegno, troppo giovani talvolta per l’antico, e troppo antichi per ciò che non fu mai
così recita Rainer Maria Rilke e così vogliamo che la coscienza reciti ogni qualvolta ci avventuriamo verso l’impossibile che, per quanto vicinissimo possa sembrare, appare più lontano se tendiamo verso di esso le nostre dita tremanti, inermi dinanzi a ciò che non può essere deturpato dai nostri voleri viziosi
Narrativa italiana
Elliot Edizioni
2018
185