Di Graziano Gala colpisce subito la sicurezza della scrittura, la sua è una voce originale e dotata di registri sempre cangianti. Questa sua versatilità stilistica è decisamente valorizzata dalla modalità narrativa che ha scelto: il racconto, un genere letterario che – a differenza della narrazione romanzesca, di respiro più ampio e di più complessa costruzione – impone all’autore di focalizzarsi su una “situazione” più che su un intreccio narrativo, di raccontare frammenti, flash emozionali, più che oliare e far partire gli ingranaggi del romanzo: la macchina lenta, la chiamava Umberto Eco. Graziano Gala è, al contrario, fulminante, i suoi racconti senza tempo sono attimi rubati a un universo minore, popolato da anime bizzarre, marginali, un po’ stordite e un po’ sagge, di certo mai banali. Nella brevità di poche pagine entriamo in contatto con universi interiori sempre diversi e spiazzanti e in tutti i racconti la visione che Gala restituisce al lettore è netta, illuminante, quanto cupi e tenebrosi sono i paesaggi, i set che accolgono le storie.
Condomini-mondo, bar-ristoranti che sopravvivono attraverso i decenni, periferie sconsacrate, treni della morte. Una tempesta perfetta di vite irregolari, felici diluvi di personaggi vincenti nella loro mediocrità e, sicuramente, un altrettanto felice esordio.
Graziano Gala, come nascono questi racconti, sono stati pensati come una unità narrativa unica o sono stati scritti in tempi diversi e l’idea di farne una raccolta è venuta in seguito?
Nascono da esperienze, travisate e travagliate. Si tratta di modi di recepire la realtà, di interpretarla, di spiegarsela, un po’ come fanno i bambini. Sono stati scritti in tempi diversi, non pensati per una pubblicazione. Poi mi sono reso conto che a congiungere il tutto c’era un filo comune: delle storie di sconfitte, di perdite, di abbandoni. Non dei perdenti, dei perduti. Persone che vanno avanti a tentoni, che si aggrappano, che hanno paura del passo compiuto. Ma che sono costrette a compierlo. Da qui la necessità di raggruppare insieme questi mostriciattoli, uniti da preoccupazioni e condizioni comuni.
Per te il racconto è una palestra per prepararti alla scrittura del romanzo oppure è ciò che meglio si adatta al tuo essere narratore?
Ognuno secondo le sue capacità. Se oggi posso fare sette chilometri di corsa per arrivare ai tredici o ai diciotto ci vuole tempo e allenamento. Io non credo agli arrivati, ai perfetti, ai riusciti senza fatica. Ci vuole un percorso, un lavoro sincero e onesto, ci vogliono delle cadute. Io sono qui per imparare, per misurarmi, per disciplinarmi. Voglio arrivare alla lunghezza del romanzo, ma prima voglio meritarla. Ci penso spesso, ma so che devo corazzarmi a sufficienza. E per adesso la mia lunghezza e il mio passo è questo. E in questo voglio essere performante e degno del lettore.
Nell’editoria è opinione comune che i racconti non vendano, anche se la rete – che in qualche modo è ormai una forma di editoria trasversale – pullula di siti che pubblicano racconti, per non parlare dei premi letterari. Tu hai avuto difficoltà ad arrivare alla pubblicazione con una raccolta di racconti?
Fino a luglio scorso non ci ho pensato. Cercavo di misurarmi nei concorsi, ero felice o dispiaciuto a seconda del piazzamento. Poi ho creduto fosse arrivato il momento del confronto. Ho proposto i miei racconti. Ha chiamato un editore importante. Hanno parlato di numeri tanti numeri solo numeri. Ho avuto paura. Io scrivo racconti, non faccio il ragioniere. Poi mi ha chiamato Luciano Pagano ed è stato quaranta minuti a ragionare sui miei racconti. A dirmi cosa aveva visto da lettore. Cosa pensava. Dove si stupiva. Dove si emozionava. E io ho pensato fosse giusto così. In Italia, come dice Santoni, c’è un gran bisogno di “raccontisti”. Ci sono delle storie da raccontare e la misura del romanzo non sarebbe giusta. È necessario che l’editoria inizi a pensarci sul serio.
Racconti
Musicaos Editore
2018
174