Finché saremo coscienti che la notte seguirà il giorno, che un momento di felicità ne seguirà uno terribile, che le nostre membra, a tarda sera, saranno intorpidite per gli sforzi fisici, così come la mente sarà ottenebrata per i continui pensieri che occupano le nostre capacità intellettive, proprio allora dunque saremo certi di vivere ancora la nostra vita terrena.
Ma si sa, l’uomo per natura resta un essere incontentabile.
Per placare perciò le proprie malinconiche associazioni a una vita di affanni ha pensato bene di idealizzare, immaginare e infine credere anche a un’altra vita, che compensi a pieno le sue aspettative a tal fine più che ottimistiche, quindi a quella ultraterrena, a un cosiddetto aldilà, a ciò che più decentemente gli si confà per demarcare una linea concreta da ciò che è possibile a ciò che sembrerebbe il contrario, insomma, da ciò che comparirebbe appena gli occhi gli si chiuderanno per il sonno eterno.
Questa curiosità, così volgarmente chiamata, tale da definirla religione, si è sviluppata tra tutti i popoli, dai primitivi fino all’Homo Smartphone, dalle tribù africane (dalle quali credenze è certa la nascita della musica) alle popolazioni che godono del benessere dei tempi moderni, con tutti gli optional, dal politeismo al monoteismo, fino addirittura al credere soltanto in se stessi, quindi più che un semplice ateismo, senza il supporto di figure emblematiche, oltre che con i famosi viaggi per ritrovare la propria fiducia verso l’India negli anni Sessanta del secolo scorso o alcuni stati del Medio Oriente nei Settanta.
Freud diceva che l’essere moderno, come l’uomo primitivo, non si rassegna alla possibilità della morte, il suo inconscio proprio non la accetta e a tal fine arriva a definirsi immortale, e anche se spesso il suo odio lo porta ad augurare la fine dell’esistenza verso chi non tollera, allo stesso tempo ha paura di immaginare la propria.
Per citare alcuni esempi in letteratura, in Via Katalin Magda Szabò fa rivivere le anime delle vittime della Shoah tra le persone che hanno amato e che sono ancora in vita, senza che queste ultime se ne accorgano, creando un’armonia tra terreno e ultraterreno, fondendole in un tutt’uno; in Pet Sematary di Stephen King, il protagonista Louis Creed, in seguito ad un incidente mortale, sotterra il piccolo Cage di tre anni in un antico cimitero indiano che teorizza leggende sinistre, attendendo il suo ritorno, che arriverà, certo, ma con conseguenze terribili e catastrofiche.
Nel Settecento la fantasmagoria ha avuto il suo fascino in teatro, portando alla nascita di un proprio filone contestuale, probabilmente consolidandosi negli spettacoli di carattere orrorifico andati in scena fino al 1962 al Grand Guignol parigino, fino alla nascita del cinema, con film muti come Nosferatu O Il gabinetto del Dottor Caligari.
Ma l’esempio più importante, ancora oggi, dopo duecento anni esatti dalla sua prima edizione resta Frankenstein, il capolavoro letterario di Mary Shelley.
Come può nascere un’opera strabiliante e unica nel suo genere dalla penna di una giovane donna, poco più che una ragazzina appena affacciatasi alla vita adulta?
Valutiamo soltanto un attimo il contesto storico.
E’ già iniziato l’Ottocento, carico delle sue scoperte scientifiche, gli orrori della Rivoluzione Francese sono proprio dietro di noi, giusto a un passo, e il genere cosiddetto gotico ha trovato basi ancora più concrete per puntualizzare il suo carattere macabro, anche se sta vivendo i suoi ultimi decenni di gloria.
Ci sono stati già gli emblemi di questo filone letterario, da Horace Walpole, autore de Il Castello di Otranto a Ann Radcliffe con I Misteri di Udolpho, passando per Clara Reeve con Il Vecchio Barone Inglese.
Ma qualcosa nella scienza così come associata alla Medicina, ha portato l’uomo a pensare che le sue scoperte lo stessero guidando verso l’onnipotenza, figurandosi quasi come alla portata del Creatore, di colui che tutto può.
Alcune certezze arrivano con la pratica del galvinismo, una tecnica che con l’aiuto di scariche elettriche può far muovere gli arti inermi di un animale morto, giungendo alla conclusione che ciò lo si sarebbe potuto sperimentare anche sui cadaveri dei defunti, con la certezza che in un modo o nell’altro si riesca ad infondere una sorta di nuova vita.
Ma spostiamoci un attimo tra i monti svizzeri, nell’estate del 1816, un’estate ambigua quella, scura e piovosa, e davanti al camino acceso, di sera si incontrano Mary Godwin con il suo compagno, il poeta Shelley, il medico William Polidori e Lord Byron a casa di quest’ultimo, Villa Diodati.
Per passare il tempo, distraendosi dalla pioggia che distrugge il clima mite di quell’estate inusuale, i quattro amici leggono racconti di fantasmi, tradotti dal tedesco.
Alla fine di tale esperienza Lord Byron lancia la sfida: “Ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi”.
Tutti accettano ma si sa, molto spesso non è sempre così semplice portare avanti un’idea collettiva pur restando a lavorare ognuno per sé.
Sappiamo per certo che Byron più che scrivere una storia portò a termine uno scritto, ossia la fine di un poema denominato Mazeppa; il poeta Shelley lavorò semplicemente ai suoi capolavori, senza che le influenze lo portassero verso nuove direzioni; il dottor Polidori lavorò a qualcosa che successivamente fu accantonato perché semplicemente macabro ma senza un filo logico, anche se, in effetti, qualcosa dell’idea collettiva restò e non perdendosi d’animo scrisse il racconto Il Vampiro, tra l’altro spunto fondamentale per Bram Stoker nella realizzazione del suo Dracula.
Ma Mary, dal suo canto, pensò a lungo a una storia, ossia a qualcosa di spaventoso, inquietante e terribile.
Ma come lei stessa afferma, e cioè che lo stile di uno scrittore deriva dalla sua vita trascorsa, possibilmente in maniera intensa attraverso le sue esperienze, ricche di euforie, ma anche dolori inammissibili, ancora oggi possiamo innanzitutto analizzare ciò che avrebbe influenzato la giovanissima autrice nel redigere qualcosa di mostruosamente originale.
Nell’introduzione all’edizione del 1831 Mary afferma che tra Lord Byron e Shelley iniziò un intenso rapporto intellettuale e d’intesa, verso cui sfociarono le loro conversazioni quotidiane dal sapore intelligente, a cui lei stessa assisteva, più che altro in silenzio, concentrata più a sorbire i loro spunti filosofici, che a prendere parte a ciò.
Uno di questi argomenti, come lei ci racconta, era fondato sulla natura del principio dell’esistenza terrena, riferendosi in particolar modo ad alcuni discutibili esperimenti che la scienza di quell’epoca stava appunto mettendo in pratica, analizzando in particolar modo le scoperte attraverso le verifiche scientifiche di Darwin, e in particolare non certo quello di cui tutti fossero a conoscenza, ma di quello che il mirabile dottore conservava in segreto nel suo laboratorio, dove si raccontava che fosse riuscito a infondere vita a degli animaletti di laboratorio conservati nei suoi misteriosi vasi di vetro.
Aggiungendovi le esperienze vissute tramite il galvanismo la giovane scrittrice, nel fiore dei suoi anni, quindi nel pieno delle sue facoltà istintive, pur credendo che riportare in vita ciò che fosse trapassato fosse impossibile, si convinse che l’uomo potesse in qualche modo andarci molto vicino e, quella stessa notte, appena posò la testa sul guanciale, non riuscendo a prendere sonno, tramortita da mille pensieri inquietanti, ebbe come una visione: un essere orripilante dalle sembianze umane si avvicinava al suo letto, mostrandosi per come era, cioè un esperimento da laboratorio che cosciente come un essere pensante, quindi frustrato dalla sua bruttura, ritornava presso il capezzale di chi gli aveva provocato quel danno irreparabile, il suo creatore, per mettere in pratica la sua vendetta.
Eccoci dunque al punto: la storia ha preso forma.
Incoraggiata dal poeta e compagno Shelley, Mary inizia a lavorare al suo romanzo, sensibilmente influenzata, oltre che dalla figura del poeta, anche dai poemi di quest’ultimo, per i quali, come ovviamente possiamo capire, prova un’attrazione senza controllo, pensando al titolo, palesando il cognome del dottore/scienziato che dà vita al mostro, Frankenstein, aggiungendovi il particolare di cui abbiamo parlato poc’anzi, quindi l’influenza di Shelley, il moderno Prometeo, prendendo in considerazione Il Prometeo liberato.
Il romanzo esce nel gennaio del 1818, provocando innanzitutto una fortissima spaccatura tra ciò che è stato scritto fino ad allora e ciò che sarà realizzato in futuro, tutto indubbiamente guidato dal pensiero emotivo che Frankenstein avrebbe di lì a poco inoltrato nella nuova letteratura dell’orrore.
Quindi sembrerebbe assurdo, ma è giusto puntualizzare che questo capolavoro non può più essere presente nella dottrina del genere gotico a cui i lettori hanno assistito nel secolo precedente e ai principi del corrente; si tratta infatti del capostipite di un filone letterario che sì, continua a smuovere l’immaginazione di chi legge attraverso scene ripugnanti e rivoltanti, ma allo stesso tempo analizza le congetture di ciò che l’uomo potrebbe sperimentare nei suoi laboratori, arricchendo perciò la paura più nel concreto, infondendo quindi il terrore che quello che fino a ieri si sarebbe solo potuto immaginare, oggi, con lo studio e l’analisi di una semplice opera di fantasia, potrebbe addirittura essere possibile, se non addirittura certo.
Ed è proprio qui che sta la genialità di quest’opera.
E’ qui che ognuno di noi immagina il proprio Prometeo, la propria terribile realizzazione di ciò che nel concreto può diffondere terrore, quello però causato da idee fondate da un ragionamento precedente, non solo quindi teorizzato, ma semplicemente pensato a diffondere repulsione senza prima chiedersi come a ciò si potrebbe arrivare.
E’ la stessa scienza, con i suoi traguardi, che fa paura, e questo, come abbiamo constatato nell’orrore delle guerre che si sarebbero generate in quel secolo, come in quello successivo è promotore di ciò a cui avremmo assistito, quindi alla sperimentazione, ad esempio di armi nucleari o chimiche, che una forza militare o un’associazione terroristica avrebbe attuato per sbaragliare nella maniera più veloce e terrificante il nemico, senza risparmiare nessuno, né anziani, né donne, né (ahinoi!) bambini, generando il vero terrore, quello che poi il dottor Freud avrebbe analizzato per le sue psicoanalisi, trovandosi a confronto con chi quei momenti li aveva vissuti, teorizzando perciò una nuova idea di morte.
E ricordiamoci che non era ancora arrivato l’ Olocausto…
La crudeltà quindi non risparmia nessuno, ed è proprio questa che si concretizza nella generazione che assiste alla nascita del romanzo Frankenstein: il mostro, nato dalla curiosità morbosa del suo creatore, del suo scienziato, comprende, attraverso le esperienze della vita, in cui tutti coloro che incontra restano orripilati dal suo aspetto, che il male sta prendendo il sopravvento nella sua coscienza, inizialmente pressoché pulita, perché priva dei sedimenti mentali di un uomo vissuto, quindi fuggito un primo momento dalla sua casa natìa, il laboratorio, scaglia la sua rabbia uccidendo il piccolo William, il fratello del dottor Frankenstein prima ,e la promessa sposa di quest’ultimo, dopo.
Il mostro suggerisce al suo creatore, a tal punto, di approfittare del cadavere di una donna per donargli una compagna che non lo faccia sentire più in solitudine, anzi, che possa capire, perché nella sua stessa condizione fisica, cosa si prova ad essere esclusi da una società civile a cui lui stesso, come noi, nella maggioranza dei casi, aspira, per essere semplicemente accettato e non ingiustamente rifiutato.
Ma il dottor Frankenstein, che all’inizio accetta la proposta, sperando di potersi liberare per sempre dalla minaccia della sua creazione, del suo mostro, quindi proteggendo il resto dei suoi cari, ha tuttavia paura che possa diffondere nel mondo un altro errore causato dai suoi esperimenti, quindi distrugge il terribile artefatto, scatenando l’ira senza controllo del mostro, e da adesso in poi si assisterà a un inseguimento senza limiti, senza sfinimenti, senza barriere via, via, lontano fino ai ghiacciai dell’ Artico dove lo scienziato, stremato, infine muore, e dove la sua terribile creatura, nonostante tutto piange, arricchendo la sua esperienza umana, conoscendo davvero il dolore di una perdita, arrivando a tal punto a credere che sia rimasto davvero solo, senza neanche il suo nemico, sbaragliato dalla sua stessa ira, dalla sua stessa coscienza inquinata dall’odio formatosi con l’esperienza terrena.
Il mostro di Frankenstein si rivela per quello che è: il vero perpetratore del diavolo.
La genialità di questo romanzo sta proprio in questo, e cioè che la creazione sperimentale di un uomo eredita solo la vita, mentre l’odio nasce dall’esperienza che l’uomo stesso gli infonde portandola a conoscenza degli aspetti nefasti dell’esistenza, e tutto ciò scatena la reazione dei suoi errori, che scagliati forte contro il muro della sua testardaggine, della sua sedicente altezzosità, generate da una basilare e individuale ignoranza, tornano indietro infierendo su lui stesso, che sopporterà, per il resto della sua drammatica vita, le conseguenze dei suoi errori, molto spesso fautori di una morte violenta, assistito soltanto dall’indifferenza di chi lo circonda, che lo dimenticherà ben presto, perché offuscato dal susseguirsi del tempo, che erroneamente, invece, lui ha concretizzato come il proprio, irripetibile.
“Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”
Marco, 7,15.