Con La grande sera, di Giuseppe Pontiggia, vincitore del Premio Strega nel 1989, siamo giunti alla quarta tappa di questo viaggio nell’arte di scomparire. E davvero, in questo caso, ci muoviamo tra le pagine di un grande libro in cui è proprio la scomparsa il tema centrale. La scomparsa e uno scomparso che, solo ad una lettura superficiale, possono essere fatte coincidere. No. Non coincidono. Tracciano sentieri che, a volte si incontrano ma, in realtà, aprono più spesso strade che divergono. Sì perché in questo libro, un uomo scompare tracciando storie e ipotesi che si innestano sul concetto generale di scomparsa. Scomparsa dei sentimenti, scomparsa delle immagini che ciascuno si fa degli altri e dell’altro, scomparsa delle menzogne attraverso la caduta del velo sulle menzogne stesse. La grande sera è uno dei libri più complessi e difficili, per tanti versi, non solo di Pontiggia ma di tutta la letteratura italiana del ‘900.
In un caldo pomeriggio di giugno un uomo scompare. A dare il via alla storia sarà la sua amante che, preoccupata dal suo non presentarsi ad un appuntamento, telefonerà a Mario, fratello dell’uomo sparito, facendo partire la narrazione e la storia. L’elemento, da subito, più interessante, è la certo non casuale scelta di Pontiggia di non dare un nome a quest’uomo. Uomo che, di volta in volta, ci viene raccontato con brandelli di identità basata più sui rapporti che lo legavano agli altri che non a un essere persona portatrice di un nome proprio e, quindi, di una identità. Lo scomparso sarà, a seconda di chi lo cerca, il marito di, l’amante dì, il fratello di, il socio di. In un gioco che è già così uno sfilacciarsi di immagini e una scomparsa, appunto, che non è solo fisica ma significante.
Come Pontiggia sia riuscito a fare di un assente il vero protagonista del libro è, sicuramente, l’aspetto più potente de La grande sera. Più vivo di tutti gli altri, lo scomparso funziona quasi come disvelamento per le ipocrisie e le reazioni degli altri. Che solo davanti alla sua scomparsa, cominciano a comprendere le loro di vite. Tutte basate su qualche nascondimento, su una ambiguità, una rinuncia. Dunque più sull’invisibile che non su ciò che si muove alla luce del sole. Mario, il fratello, ha ambizioni da critico letterario che restano però incagliate nella sua incapacità di decidere e quindi, di tirarsi fuori apertamente, da una vita grigia. La sua amante accetta, fino ad un certo punto, clandestinità e incertezza. La moglie, Giulia, nasconde e rinuncia per tanto tempo alle sue ambizioni poetiche proprio per dedicarsi a quel marito con cui costruisce l’unica fedeltà possibile: accettare le sue infedeltà. Terragni e Campisi, soci dello scomparso sono dediti a niente altro che ad affari non proprio puliti e, quindi, nascosti. Alcuni di loro cercano, ciascuno a modo suo, di assomigliare a uno stereotipo. Che, detta così, sembra il cortocircuito della vita ma, in realtà, è proprio un’altra declinazione dello scomparire.
Tra le pagine de La grande sera, ad un certo punto, ci si trova a comprendere che lo scomparso è probabilmente l’unico presente. Presente alla sua vita, ai suoi desideri, alle sue pulsioni; circondato però da persone che si sono nascoste rinunciando a quella che, forse, era la parte più vera di loro. Molti critici, in un copia incolla di recensioni e di concetti, hanno usato la stessa identica espressione: la sera dei sentimenti. Solo perché, ad un certo punto, passati tre mesi, tutti i coprotagonisti del libro, hanno cominciato a vivere con l’affievolirsi della preoccupazione, con la sempre meno urgente domanda e bisogno di sapere cosa fosse successo. Ma questa non è la sera dei sentimenti, questa è la vita alla sua ennesima potenza. La grande sera è, semmai, l’alba dei sentimenti e il loro tramonto. Ma non nel senso di una sera amorfa. Al contrario. Sono sentimento fatti di ombre, di cose non dette, non fatte, nascoste, ambigue. Ma vive.
Forse anche per questo chi, nel libro, è in ogni modo coinvolto in questa sparizione, prova, sotterraneo e non confessato, un senso quasi di invidia per la decisione presa dallo scomparso. Unica decisione possibile per sottrarsi anche all’ambiguità e dei sentimenti e del linguaggio. Emblematiche a tale proposito, le pagine in cui Pontiggia riporta il modo di parlare dello psicanalista a cui si rivolge una delle amanti del “fuggiasco”.
E’ proprio un assente e una assenza, uno scomparso e una scomparsa a funzionare come i catalizzatori in chimica: sostanze che non creano un fenomeno inesistente ma accelerano un fenomeno già in atto. Sono proprio uno scomparso e una scomparsa a mettere in luce i percorsi di vita degli altri: matrimoni sfilacciati, relazioni clandestine, curiosità sull’al di là, sulla vita relazionale degli animali e, in fondo, sulle cose che non si dicono. E che, non dicendo, scompaiono continuando però a interrogare. E questa è esattamente il contrario della sera dei sentimenti.
Un libro in cui, nonostante i molti rimaneggiamenti confessati dallo stesso Pontiggia, resta una prevalenza, mai però fastidiosa, degli aforismi. E non a caso perché, se ci si pensa bene, l’aforisma è proprio l’apoteosi del nascondimento: si svela qualcosa mettendo in relazione più ciò che non si dice rispetto a ciò che si dice. E questo non detto fa mergere, alla luce, un terzo elemento, un collegamento nuovo. Proprio per questo il vero protagonista del libro è proprio l’uomo scomparso. Perché la sua scomparsa diventa l’aforisma delle vite altrui.
Le altre puntate della rubrica L’arte di scomparire sono state dedicate a Vila-Matas a Roberto Bazlen e a Guido Morselli
Oscar Classici Moderni
Letteratura italiana
Mondadori
2009
217