L’ultima diva dice addio è l’elegante e ricercato esordio di Vito Di Battista che, con quest’opera dimostra una padronanza della scrittura davvero sorprendente. Non tanto per la sua giovane età quanto, semmai, per il suo spiccare in un panorama letterario italiano fatto, spesso, di esordi ombelicali, balbettii autoreferenziali e storie a cui manca tono e respiro. Qui, invece, c’è una scrittura alta che sostiene una struttura narrativa da romanziere navigato. La storia è ben riassunta nella quarta di copertina ma quello che la quarta di copertina non riporta e non può riportare è la sorpresa che coglie chi legge queste pagine, la sensazione di trovarsi tra le mani un romanzo semplice ma non facile. Ogni frase sembra cesellata in un lavorio di scrittura e riscrittura, in un impegno a togliere invece che mettere in modo ridondante.
Molly Buck è l’ultima diva e in questo aggettivo “ultima” sembra già risuonare un’eco di universalità e di impossibilità che qualcosa si ripeta. La storia di ciascuno, infatti, non si ripete ma si può solamente, quando si riesce, raccontare per sottrazione. Molly Buck, proprio all’apice del suo successo si ritira dalle scene e, forse, dalla vita, decidendo di trascorrere ciò che le resta da vivere in un elegante appartamento di Firenze. Tutto potrebbe finire così, per lei, in una quieta ricerca di tranquillità e dimenticanza se, il destino, non le avesse fatto incontrare un giovane che diventerà, il suo biografo. E quando la notte di capodanno Molly morirà in una clinica privata sulle colline fiorentine, sarà proprio su una panchina davanti al cancello che incontreremo il ragazzo e che cominceremo ad ascoltare, attraverso le sue parole, la storia della donna.
Una storia che passa dai successi a quello che, a tutti gli effetti, sembra davvero un esilio cercato e desiderato. E, in mezzo, personaggi che, proprio come in un film, entrano in un racconto che sembra un’epifania di epifanie, di dolori e di gioie, come è normale che sia, e di menzogne, forse. Tra detto e non detto, questi due sonnambuli, rievocano una storia che è fatta di tante storie una dentro l’altra in cui l’urgenza è quella della memoria. Il personaggio narrante sembra quasi divorato dal bisogno di raccontare perché nulla vada perso. Ma cosa si può raccontare di una vita? Dove vanno a finire le vite degli altri se non vengono raccontate? “L’ascoltai in estasi, ammaliato dalla sua eleganza. Questa storia, come tante altre che ho avuto la fortuna di conservare al sicuro nella mia stanza, sarebbe finita chissà dove se non fosse stato per me, e questa è l’unica cosa di posso vantarmi senza peccare di presunzione.” Chi racconta si mescola, forse inevitabilmente, con chi viene raccontato, in una continua lotta contro la morte e la sparizione.
Perché questo romanzo è un’elegia disperata alla memoria, alla sua potenza e alla sua corsara capacità di cambiare le prospettive e, forse, la stessa verità. In un bisogno che è proprio del narratore. Perché in questo L’ultima diva dice addio, il racconto diviene carne di chi racconta e la storia di Molly diviene la storia del suo biografo: “Ho cercato Molly nei mercatini delle pulci ai crocevia e nella vita che brulica nelle osterie all’ora di pranzo, per non correre il rischio di perdermi nessuna delle sue epifanie anche se la sapevo lontana e avevo capito che non sarebbe tornata indietro.”
Un libro in cui ogni frase riporta ad altro, in un gioco di nascondimenti, tra il bisogno di lasciare tracce e quello di sparire. Bisogni che sono sia di chi racconta sia di chi diviene oggetto di racconto: “[…] Disse che la soluzione andava cercata nell’andatura con cui si cammina per strada: il numero giusto di passi al minuto, così da concedersi il tempo di vedere il mondo e dare al mondo il tempo di vedere chi sta passando in quel momento. Non troppi da annoiare, non così pochi da rischiare di non lasciare alcun sapore a chi assiste.”
Un romanzo circolare così come circolare è l’andamento stesso della memoria, come ha detto lo stesso Di Battista in un’intervista rilasciata a Claudio Volpe sul quotidiano La Città di Teramo. Un andamento rimarcato dalla reiterazione, ad inizio di ogni capitolo, della stesa frase: “Dimentico sempre tutto quello che avevo deciso di ricordare a perfezione.” E da quella frase è come se, ogni volta, la storia ripartisse uguale eppure diversa, con un andamento che ricorda il Canone di Pachelbel. Cosa, dunque, si ricorda quando si ricorda o si crede di ricordare? In tutto il libro resta sottesa questa domanda e il dubbio che resta è proprio quale sia la capacità e la responsabilità dei narratori nel non lasciare sparire vite e fatti. Vite e fatti dei narratori stessi. Perché, in questo libro, la storia del biografo e quella della diva sembrano speculari l’una all’altra, con un andamento in cui uno si ritira e l’altra entra nella vita eterna data dalle parole. Chi racconta si mimetizza e chi viene raccontato prende la scena (ecco perché raccontare un’attrice). Ma chi dice “io” a questo punto? Cosa resta dell’essere? Un’allegoria di resurrezione perché, in fondo, è la morte la più viva delle possibilità. Almeno per la letteratura.
L’ultima diva dice addio ha, in molte sue pagine, qualcosa che ricorda la letteratura aforistica del Pontiggia de La grande sera e qualcosa del languore evocativo del bellissimo Un cuore muto di Sergio Pent, altro libro in cui ad essere raccontata è una diva del cinema muto la cui storia e la cui epoca si intrecciano con quelle di un critico cinematografico della Torino degli anni ’70. Anche qui c’è una città tra i protagonisti; là era Torino, qui è Firenze, sussurrata appena ma molto presente con il suo lungarno e i suoi palazzi senza balconi che entrano di diritto nella scenografia.
E poi il finale. Sorprendente. O forse no. Sicuramente un’altra finezza narrativa che chiude il cerchio senza concluderlo.
Narrativa italiana
SEM Società Editrice Milane
2018
213