Massimiliano Bardotti, Il Dio che ho incontrato
Ricordo gli occhi
(mia madre che coglie ciliegie)
il sole alle spalle.
Ricordo l’eco delle stelle
l’armonia della pace.
Ricordo amore, quanto era necessario.
Era un giardino.
Dio era di casa.
Domanda: I versi di Massimiliano Bardotti trascendono il quotidiano ma del quotidiano portano la cifra. La natura è quella antica di un’Italia ancora lontana dal cemento che non solo ha soffocato i prati, ma ingessato i cuori. Contratto in uno spasmo di solitudine l’individualità umana. Le poesie di Bardotti sono frutto di illuminazioni interiori, quindi profondamente soggettive, eppure, il loro messaggio non è occulto, non è misterico, non è sibillino. Fin troppo chiaro è l’intento di incontrare l’altro, attraverso un Dio che niente ha a che spartire con la politica religiosa dei templi che Dio hanno dimenticato. Chi è il Dio che hai incontrato?
Risposta: È la bellezza. E forse è necessario chiarirsi su questo, perché la bellezza di cui parlo ha nulla a che spartire con i canoni estetici odierni, che crea mostri. La bellezza che mi tocca nel profondo così tanto da farmi sentire al cospetto di Dio (sentire che riconosco per commozione, stupore) non va dal chirurgo estetico. Non ne ha bisogno. Si tratta del taglio di luce in un tardo pomeriggio di maggio, che filtra dai rami di un albero. È la primavera. Ma anche l’inverno, l’autunno e l’estate, perché quel che è necessario è bellezza. Tutto il superfluo no. La bellezza ha molto a che fare con i dettagli. Certi sguardi e certi sorrisi. Con la musica. La bellezza di certe preghiere, come questa:
Nulla ricordo del Testamento, neppure l’ora,
né conosco la divina Torah.
Ma tu mi hai dato estate e inverno,
e cielo, e fiumi, e monti.
Non mi insegnasti a pregare
Secondo le regole e le leggi,
canta il mio cuore, come un uccellino,
a icone non dipinte da mano umana,
alla rugiada, all’alba e alla strada,
alle pietre, all’uomo e alla bestia.
Ricevi, o giusto e severo,
l’unica mia parola: credo!
Mat’ Marija
S. Hackel, Elizaceta Jur’evna: Rivoluzionaria, monaca e martire.
Questa preghiera potrebbe tranquillamente stare nel libro, per contenuti, semplicità, visione. Ha un che di francescano…
Però vorrei anche precisare una cosa: Non credo ci sia alcuna distanza fra il Dio che ho incontrato e il Dio di ogni religione. Credo ci sia un unico Dio che assume forme, sembianze, colori, musica, parole e sentimenti diversi per ognuno, proprio perché ognuno di noi è diverso. Così credo che ogni religione sia meravigliosa. E vera. Siamo noi uomini che fraintendiamo e creiamo una diversità che fa paura e crea nemici. È, dobbiamo essere onesti, la nostra ignoranza. Perché non sappiamo nulla e quel nulla ci sembra tutto e ognuno convinto della propria verità trova il nemico in chi in quella verità non si riconosce. E anziché accettare l’invito: Ama i tuoi nemici, decide che il nemico va eliminato. Viviamo in questo mondo e ne abbiamo responsabilità.
Eppure, ed ecco la grazia, malgrado noi, c’è tanta bellezza dappertutto, che commuove. Siamo così amati che fa male non rendersene conto.
Tu all’inizio parli di templi che Dio hanno dimenticato. E purtroppo è vero, ce ne sono fin troppi. (Anche perché uno solo sarebbe già troppo). Ma ho avuto la fortuna di entrare in templi in cui Dio risplende ora come in principio. E so che ce ne sono molti. Questo per dire che Dio è dappertutto, è in tutto, è tutto. Ecco perché mi azzardo ad affermare che se so incontrare l’altro a cuore aperto, allora posso incontrare Dio nell’altro …
Di certo invece non lo incontrerò dall’alto di una superbia dilagante o nella miseria della cattiveria.
Umiltà. Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo… si dovrebbe pregare incessantemente per ricevere il dono dell’umiltà.
Il grande poeta Serse Cardellini nel suo nuovo capolavoro Sono le 26:00, scrive:
(…)
Prima di cercare Dio lavati le mani
Versa un po’ di vino agli antenati
E i piedi di tutti gli immigrati lavali
(…)
Ci vuole grande umiltà e una devozione alla cura, al bene dell’altro; un sentire la felicità, la gioia, la salvezza dell’altro come un’esigenza personale. Ecco il Dio che ho incontrato…
Rumi ci attende
dove ogni uomo serve Dio.
È lì che stiamo andando
con la pazienza dei padri
piegati nel campo
a piantare il futuro.
(che va scomparendo
scomparendo anch’esso)
Domanda: Rumi è un poeta islamico, fondatore della confraternita dei dervisci rotanti. La tua poesia è mistica e non tralascia l’idea di una divinità unica, di una possibilità di comunicare a tutti il Tutto che è pervaso dall’amore. Che rapporto hai con questo tipo di influenze e invece, come consideri la poesia attuale, sempre tesa a una sorta di egocentrismo. Cosa hai da dire riguardo il narcisismo di questa epoca?
Risposta: Rumi, Hafez, Omar Khayyâm, sono poeti importanti per me. Come Dante. Riconosco in queste radici la vera poesia. E non dovrebbe esserci il bisogno di aggiungere “vera”. Quando si dice poesia si dovrebbe già sapere di cosa si tratta. E ha a che fare col mistero.
Per me poesia e spiritualità vanno di pari passo. Ogni scrittura è la stesura di un dettato. Un grande poeta è un grande ascoltatore. Il poeta è uno strumento, deve sapersi riconoscere come tale. Darsi poche arie, perché senza ispirazione è nulla. E c’è tutto un lavoro da fare, che è fare spazio affinché poesia possa entrare. Quindi la poesia è una disciplina ascetica. Con regole, precetti, digiuni e preghiera.
Si lavora ogni giorno, costantemente, ogni minuto, per diventare ascoltatori migliori, per lasciare sempre più spazio alla Musa, per sentire più chiara quella voce, ormai appena un sussurro, che detta i versi.
Quella voce sommersa sotto il rumore di IO IO IO IO maestosi, mostruosi, pericolosi.
Si dovrebbe farsi fuori. Mettersi da parte. Per non intralciare la bellezza in azione.
Ti faccio un esempio. La natura ha i suoi tempi. Così un bruco diventa farfalla se rispetta i tempi di morte e resurrezione. Ma se interviene un uomo che, per evitare quella sofferenza, libera il bruco dalla sua carcassa prima del tempo necessario alla rinascita, non ci sarà nessuna farfalla. Ci sarà solo morte.
Ecco. Questo noi lo facciamo continuamente nei tempi odierni. Creiamo la morte. E pensare che la morte non esiste, come hanno affermato in modi e tempi diversi tutti i più grandi scrittori e poeti.
La poesia oggi nella stragrande maggioranza dei casi, anzi quello che viene spacciato per poesia, è solo un misero tentativo di affermare la propria esistenza, il proprio esserci. È un piagnisteo. Un dire: sono qui guardami, guarda cosa so fare, come sono bravo. È un’esibizione. È un mostrarsi, un mostrare cosa si vuole essere, un mostrarsi migliori di quel che si è. È mostrare quel che si ha. Una sorta di trofeo. E un continuo lamentarsi e un dire io io io io io…
Invece no. La poesia è un fiore bellissimo e profumato, che nessuno coglie affinché tutti possano goderne. E perché nessuno ne ha l’esclusiva. E non viene dall’uomo.
Al grande poeta russo Iosif Brodskij un giudice chiese quali studi avesse fatto per potersi definire poeta. Lui rispose che non sapeva che funzionasse così, credeva che la poesia fosse una cosa diversa. E come credeva funzionasse, chiese il giudice. Rispose il poeta: Credo che la poesia venga da Dio.
Del resto, Dostoevskij ha scritto: Il poeta, quando è ispirato, intuisce Dio…
Nel gesto della meditazione
cerchiamo il tesoro nascosto
(l’abbraccio)
l’eterno matrimonio
Domanda: Una volta ti dissi che la tua ‘recitazione’ è un messaggio che viene dall’altrove.
E ascoltarti, davvero ha la forza di collocarti su un piano differente, di pace, di trascendenza. Come nascono i tuoi frammenti di illuminazione che serbano un insegnamento quasi sconosciuto, intendo dire: nascono come parole sulla carta o come voci, come canto del cuore che la mente poi riporta sul foglio? e che ruolo ha, in questo tuo percorso, la meditazione?
Risposta: Io non so scrivere. Non sono per niente bravo. Non sono un letterato. Non ho nemmeno gli strumenti adatti. Sono un ignorante. Questa è la verità. Ma dedico almeno un’ora della mia giornata a leggere poesie ad alta voce e prego incessantemente di essere all’altezza delle parole che scrivo.
C’è una voce, dentro di me, che detta i versi. Non so dirlo in altro modo. Talvolta mi sveglia di notte e devo scrivere. Ma non so mai esattamente cosa sto scrivendo mentre lo scrivo. Sono il primo lettore di me stesso.
Dopo, quando rileggo, taglio, limo, aggiungo (più raramente) aggiusto. Ma l’atto dello scrivere è spontaneo, come il battito del cuore, come il respiro. E come il battito del cuore e il respiro, mi è donato. Ha lo stesso ritmo, la stessa misura. Io non so farmi battere il cuore in petto, né posso decidere di non respirare più e vivere ancora. C’è una forza in me, qualcosa che mi vive. La poesia per me è la stessa cosa. Viene dalle stesse regioni di quella forza sulla quale non abbiamo nessun controllo.
La meditazione, la preghiera, hanno completamente cambiato la mia vita e quindi la poesia. Credo di aver cominciato a scrivere solo dopo aver cominciato a pregare. E per imparare a pregare non basta tutta la vita…
Il Dio che ho incontrato è il vigneto
è l’oliveta struggente che osservo dal colle
l’antica sequoia, che non cede alla morte
e il cerchio nel tronco della quercia
mistero annoso che va rivelando
il segreto del tempo svanito
e del tempo ormai ritrovato.
Passeranno i giorni uno alla volta
come sempre hanno fatto.
Domanda: La prima volta che ti conobbi fu a Empoli, durante un tuo reading accompagnato dalla musica elettronica del fido musicista Giacomo Lazzeri: all’epoca leggevi delle poesie molto vicine alla cultura underground degli anni ‘70, ti vedevo come un Ferlinghetti degli anni Zero, poi sei transitato per il cut-up e ora le tue liriche hanno acquistato una forma che in un battito di sillabe e di quotidianità celeste raccoglie l’eterno. Ci puoi riassumere questo percorso? E quali sono state le difficoltà maggiori?
Risposta: Il cut-up lo utilizzo ancora, a Ferlinghetti sono legato. Il percorso riguarda tutta la mia vita, non è una scelta poetica. Dunque la scrittura è mutata col mio mutare. Non c’è distanza alcuna fra chi sono, come vivo e ciò che scrivo. Almeno nelle intenzioni. Quindi le difficoltà sono quelle che ho incontrato nel quotidiano. Nel cambiare abitudini, nel tentativo di morire per rinascere. Non era solo la poesia che doveva progredire, ero io.
Tu mi hai conosciuto proprio nel momento di passaggio, e già sentivo l’altrove come un luogo reale. Prima vivevo imprigionato in una realtà fatta solo di quel che è visibile. Ecco, ciò che vediamo in uno stato di coscienza comune, è una piccolissima parte della realtà, della verità. Ma è tutto molto più vasto e misterioso…
Lo sforzo poetico è andato comunque in una direzione molto precisa. Quel tentativo di purificarmi si è tramutato nella ricerca di una parola scarna, semplice e profonda, necessaria. Come ho detto all’inizio, quel che è necessario è bello…
Il Dio che ho incontrato ha tre anni
i suoi occhi son canti
(la sua voce un richiamo).
Se ride, l’universo ride.
Ha un tesoro
nell’incavo del cuore.
Senza timori, lo custodisce
ne ha cura.
Come di lui hanno cura i parenti
le ghiandole del cielo.
Domanda: La musica, prima di tutto. Parlaci de La Minima Parte: che rapporto hai con la musica e durante la stesura di questo ultimo libro che tipo di ritmo seguivi, che musica cercavi?
Risposta: Cercavo la musica che ha dato vita all’universo. Quel verso primordiale. Cercavo la bellezza nascosta in ogni cosa, nel dolore. Cercavo il canto di ogni creatura e delle pietre. Cercavo l’inno di lode del colibrì, il cantico del cardellino. Cercavo i suoni dei cembali, dell’arpa, della cetra…
La musica degli abbracci, dei sorrisi. La melodia delle stagioni.
Cercavo il vento. E la chitarra.
I canti dei primi monaci. E prima ancora…
Cercavo la musica segreta di ognuno di noi…
La musica per me è importantissima. La Minima Parte nasce proprio da questa esigenza di aggiungere la musica alle letture pubbliche di poesia (che se fatte a modo sono già musica, intendiamoci).
Ora ci siamo allargati! Oltre a Giacomo che hai già citato c’è Sara Giomi alla chitarra, che ha una delicatezza straordinaria, commovente; Giulia Tanzini che suona l’arpa celtica e della quale mi sono artisticamente innamorato la prima volta che l’ho sentita suonare. Genny Carusi, con le sue danze che sono poesia in movimento… Lavoro molto con la grandissima attrice Viviana Piccolo adesso, alla quale sono legatissimo, le voglio un gran bene. E mamma mia quanto è brava! E poi c’è Anna Pellegrino, una musicista straordinaria che tocca profondamente il mio cuore…
Il Dio che ho incontrato, leggere mani
dal pianoforte accordato
estrae la voce del padre.
Domanda: Dove ti sta conducendo la tua luce poetica?
Risposta: Spero mi riporti a casa, all’amor che move il sole e l’altre stelle…
Anche il futuro
aveva i tuoi occhi.
Grazie Massimiliano!
Grazie a te Gianluca, grazie di cuore e grazie a ogni lettore, ogni bene…
Poesia
Nerbini Editore
2016
103