Confrontarsi con un romanzo come La Consonante K di Davide Morganti (Neri Pozza) comporta una seria disciplina letteraria che, tuttavia, può trovare inciampi nelle proficue e molto spesso strampalate vicende che arricchiscono la trama, anch’essa realizzata con la cura di un autore a dir poco inusuale, che potrebbe essere paragonato a un artigiano dedito sì al suo lavoro, ma con altalenanti sbalzi di umore.
La sfida della relazione che state leggendo vuol mettere dunque alla prova chi davvero potrebbe, magari affascinato dal mosaico di idee proposte, cimentarsi nella lettura, augurandosi di immedesimarsi nei personaggi che popolano questa piccola e, allo stesso tempo, immensa saga, augurandoci che possiate seguirci fino alla fine.
Il romanzo ripercorre mezzo secolo di storia a cavallo tra la vecchia Europa, spaccata ancora a metà (ma per poco) dalla guerra fredda, dalle spartizioni ad est dei regimi comunisti e ad ovest col divampante occidentalismo consumistico; e i sempre moderni Stati Uniti, con un epilogo sabbioso e torrido, immerso nell’ambiente desertico del Messico, tra narcos e mafia.
Verrebbe tuttavia in mente un episodio che tantissimo si discosta dal nostro discorso e, ci spiace dirlo, non è compreso nelle storie e microstorie del libro, ma che, se collegato da un filo logico, rende l’idea di come possa essere stato concepito un lavoro simile, nella sua fattispecie.
1965, quartiere di Ealing, Londra.
Tra un lavoro e l’altro di produzioni e idee per un dirompente futuro artistico, Pete Townshend, il chitarrista e principale compositore dei The Who, mentre nel suo piccolo appartamento aspira forte l’ennesima boccata di erba, è attanagliato da un forte stress psicologico, l’ennesimo che lo spinge alla realizzazione di un’idea, strampalata sì, ma che riemerge da un ragionamento molto sensato, frutto di preparazioni artistico-culturali che hanno arricchito la sua giovane esperienza di performer: gli hanno appena chiesto un singolo di successo.
Nell’indecisione di come affrontare la sfida, inizia ad ascoltare e riascoltare alcuni dischi, come Freewheelin di Bob Dylan o Devil’s Jump di John Lee Hooker e, immergendosi in essi trova una sola frase che sintetizza e, allo stesso tempo, corona il tutto: I can’t explain, non so spiegare.
Ecco che la spiegazione “non spiegazione” arriva al traguardo, con uno dei brani più belli della storia del rock che prende forma ma che nasce da un’indecisione, tuttavia spiegata attraverso una cultura basilare che getta le fondamenta per un successo travolgente.
Tornando a noi, Davide Morganti, dunque, nel suo personale I can’t explain, attinge, nonostante indecisioni volute e studiate, alla sua gigantesca preparazione, con episodi curiosi, storici, terribili, ilari, potenti, surreali che nascono dalle letture di possibilissimi (azzardando) Michael Connelly, Shane Stevens, Joachim Fest, Victor Serge, Michail Bulgakov, miscugli di mondi possibili e impossibili che servono da collante alla miriade di storie che compongono il tutto.
Agli albori degli anni Cinquanta Elimelek, ebreo polacco, si trasferisce con la famiglia a Berlino, convinto così di poter risanare il Paese dalla passata furia nazista, con la passione per il pugilato e per la fumettistica, con la quale inventa un personaggio alquanto insolito; Bruno, suo figlio, si ritroverà, nel 1961, bloccato in una casa, proprio a ridosso del Muro appena innalzato, purtroppo dal lato della DDR, da cui ne uscirà soltanto nel 1989, quindi con il crollo del comunismo, proprio quando il suo migliore amico, Horst, sta tentando la fuga saltando con l’asta fino al lato occidentale. Episodio fallito appena si capisce che i suoi anni di duro allenamento sono stati inutili.
Nel frattempo, in Estonia, il dottor Tonu vede letteralmente cascare, nel suo studio in ospedale, sempre più mattoni, gli stessi che cadranno, riducendo il Muro a un rudere e un triste monumento per turisti.
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Tonu, cercando di ritornare sui suoi passi, affronta un viaggio fino a Mosca, alla teca di Lenin, la cui salma alla fine porterà con sé e alla quale donerà la forza di riprovarci, attraverso (tenetevi forte!) un’ incredibile resurrezione, grazie alla quale il fondatore dell’URSS riassumerà, oltre al controllo delle forze perdute, anche una particolare attitudine al mondo occidentale, vizioso, alcolista e pieno zeppo di associazioni a delinquere, una di queste addirittura guidate da Besel, un cane meticcio.
Negli Stati Uniti post 11 settembre, ancora in preda al terrore che qualcosa di terribile possa succedere da un momento all’altro, all’improvviso (ci siete?) muore Superman, proprio battuto da Lenin, il quale avrà un futuro da wrestler di successo; tutto accade mentre si viene a conoscenza di una notizia strepitosa: Gesù non è mai risorto e il suo corpo senza vita vaga in giro per gli States, in una Chrysler, fino in Messico, scatenando un intrigo internazionale che smuoverà associazioni mafiose, pazzoidi tossici e comunità cristiane…
Bene. A questo punto alcuni di voi hanno abbandonato la lettura, mentre altri continuano, ma con un senso di smarrimento, attoniti e storditi dalla miriade di immagini e situazioni che si sono menzionate fino ad ora nel giro di poche frasi e, sarà proprio a questi ultimi che sarà dedicata la seguente analisi del romanzo, già.
E vengono in mente le derisioni che si scatenarono alle prime mostre degli Impressionisti in Francia, quando poi sarebbe bastata un po’ di attenzione in più, senza storcere il naso, ma con audacia, continuando il giro tra le tele, indugiando sulle linee all’apparenza astratte, fatte di fregi e punti sbavati. Le stesse sbavature che troviamo nell’avventura di una lettura simile, facendosi spazio tra un inverosimile qui e un’incredulità lì, sforzandosi, cercando di capire, tra le righe, quante più possibili spiegazioni abbia voluto Davide Morganti svelare con la sua pennellata di Can’t explain a dir poco violenta, a tratti cruda ma potente, potentissima.
Incuriosisce questo romanzo, composto da centinaia di storie che nascono, si evolvono assieme ai personaggi che le abitano, si allontanano l’una dall’altra e poi s’ intersecano, stimolando al lettore una fitta immaginazione ora visionaria, ora tragica, ora comica, ora apocalittica, disperdendo il lettore in una serie intricata e labirintica, dove la sensazione di poter salire una rampa di scale potrebbe dare l’impressione di affrontarne la discesa, ma a testa in giù, tutto racchiuso nei microcosmi generatori del macrocosmo, come in una litografia di Escher, geniale ma opprimente.
E incuriosisce il suo autore, a tal punto da avviare una ricerca, scovandone in rete un risultato più che soddisfacente, ossia una video-intervista in cui Morganti mette a nudo le sue ambizioni, concepite in gioventù, arricchitesi con l’avanzare degli studi.
E’ un uomo di cinquantatrè anni, con un portamento e un carisma sciolti ed evidenti, carnagione bruna, due occhi vispi e intelligenti, un ciuffo folto di capelli ingrigiti, un bel paio di baffi e un pizzetto a mosca che sottolineano un sorrisetto malizioso e sornione; un lieve accento meridionale che attrae e ci spinge alla curiosità di indagare, perché è piacevole entrare in sintonia “fisica” con il generatore di ciò che ci ha affascinato, sì, ma che lo ha fatto con una certa indifferenza, come a dire “ti sta piacendo? Ok. Non ti garba? Riponilo in libreria!”
Davide Morganti espone, nel suo ultimo lavoro, La Consonante K, l’attuale Kaos creatosi dopo il 1989 col crollo del Muro di Berlino, del Kommunism, nel cui Kòsmos si avvicendavano le sue sorti, e Kristòs, apoteosi e finale travolgente dell’opera; da due millenni il Cristo, simbolo di salvezza e allo stesso tempo argomento di scontri teorici e teologici, nel cui romanzo ricompare nel suo corpo inerme, senza vita, con ancora i segni evidenti delle torture impresse sulla Croce, e che il Demonio, impersonificato in uno dei protagonisti, minaccia la sua vera e prossima Resurrezione, scatenando una caccia che sa di intrigo internazionale, con le più grandi associazioni mafiose che vedono già sconvolti i loro piani astuti, perché, in fondo, il male generatosi nell’attuale Kaos, alimenta i loro loschi affari e il contrario, l’Apocalisse, significherebbe la fine delle loro ragguardevoli posizioni sociali.
E’ il male, quindi, che viene affrontato e descritto, nel cui dubbio teologico, in cui viene sempre esorcizzato, come quando lo troviamo nella seguente frase presente nel libro: “come può un santo accettare la beatitudine del Paradiso sapendo che altrove si soffre”?
Spiega Morganti che “camminiamo sui calcinacci dei crolli che si sono verificati negli ultimi anni, quasi come a poter sentire lo scricchiolio delle macerie sotto i nostri piedi”, gli stesi crolli quindi descritti nell’opera: il Muro, l’Heysel, le Torri Gemelle, generatori del Kosmos in cui ci ritroviamo.
Ed eccoci, dunque, rivolgendoci ai superstiti che sono ancora rimasti a leggere le qui presenti notizie, che ringraziamo della pazienza, ai quali ci inchiniamo, perché si è giunti alla conclusione che ciò che sarebbe stato inspiegabile, l’I can’t explain dei The Who descritto in partenza, ora ha un senso; perché lo sconvolgimento emotivo generatosi nella bizzarria di una scrittura imprevedibile nasconde, in realtà, la sensazione dell’oppressione del male, del demoniaco, come a spiegare che la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra non scompone le sorti dell’umanità in rovina, i cui individui sono sconfitti dagli interessi venali, espansionistici, egoistici.
Un’ultima cosa, ancora.
Davide Morganti in realtà non esiste. He can’t explain himself.
E’ lo pseudonimo di Davide Palmieri, insegnante alle scuole medie di Pozzuoli.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Narrativa
Neri Pozza
2017
416