In questi tempi chiassosi e spersonalizzati, la scoperta dell’esperienza del silenzio e dalla sua dignità è una necessità etica. Anche se parlare del silenzio è un delitto. È attentare una realtà misteriosa e indescrivibile, è camminare su un territorio sconosciuto. L’elogio del silenzio è il requisito essenziale e necessario per chiunque voglia intraprendere un viaggio nell’interiorità.
Non c’è interiorizzazione senza silenzio.
Bisogna avventurarsi nella bellezza del silenzio, sottolineandone la sua importanza in un mondo assediato dai rumori e dalla tecnica dove tutto si sta disumanizzando.
Il silenzio come agente di comunicazione, il silenzio che si può vivere e che non si può descrivere, il silenzio come gioco del linguaggio che ha una sua ragion d’essere.
In un mondo in cui siamo stati educati a interpretare la parola, quello che manca è una comprensione del silenzio.
Scrivo questo elogio del silenzio per rivendicare, in questo profondo momento di crisi morale, una pedagogia del silenzio stesso.
I tempi sono troppo disumani e noi troppo chiassosi per denunciare la scomparsa del silenzio dalle nostre vite.
L’uomo contemporaneo ha perduto una delle dimensioni proprie e uniche del vivere quotidiano che consisteva nello stare in silenzio. Quindi il silenzio si è disumanizzato. Si sono disumanizzate anche le relazioni umane.
Questo accade anche perché il silenzio fa paura. Il silenzio è un atteggiamento interiore e costringe a fare i conti con l’identità e con la parte più intima di essa. Intraprendere questo viaggio nella propria interiorità significa scoprire la propria nudità in un mondo in cui l’apparenza e le convenzioni regnano sovrane. L’esperienza del silenzio fa davvero paura perché, come afferma Plutarco, mostra l’autentico mistero del mondo che verrà.
Nel conflitto tra la rappresentazione e l’identità, il silenzio è il coraggio interiore, ma è soprattutto l’esperienza, di bloccare la maschera.
Il silenzio è un’eresia che mostra direttamente la falsità e l’ipocrisia della vita umana.
Oltre la parola vi è un mistero da percorrere: è il mistero dell’interiorità che trova nel silenzio una necessaria chiave di lettura.
Gli occhi interiori che contemplano sono l’immagine fedele del silenzio come strumento di comunicazione e come esperienza fondamentale dell’essere umano che attraverso la conoscenza abissale di sé arriva a dialogare con gli altri.
In un certo senso la pedagogia del silenzio è propedeutica alla pedagogia della parola. La parola che nasce dal silenzio è una parola solida consistente e ferma. La parola che sgorga dalla parola, dal topos linguistico, non ha la profondità né il grado d riflessione che nasce dal silenzio.
Tessere l’elogio del silenzio, in questi tempi sinistri dove il rumore uccide ogni forma di pensiero, significa prima di tutto trovare una soluzione concreta all’iperverbalismo che diventata una tendenza costante e ininterrotta.
È giunto il tempo di comprendere il silenzio, fare esperienza della sua interiorità. E il nostro tempo ci chiede una paideía del silenzio.
Nella latitanza del silenzio, regna l’assenza della parola.
Scoprire tutti i volti del silenzio significa fermarsi a pensare ai silenzi che abbiamo dentro, alla ricchezza che hanno, e alla sua forza di essere principalmente agente di comunicazione.
Se non faremo l’esperienza del silenzio, sarà impossibile sconfiggere la maschera delle convenzioni che riduce il mondo e le sue relazioni umane a una grande ipocrisia che sta distruggendo ogni cosa.
La strada da percorrere è la contemplazione nel silenzio. Contemplare in silenzio la realtà significa ritrovare il proprio tempo interiore, la visione delle cose e innocenza interiore. Senza contemplazione e senza silenzio non vi è arte, né poesia, né religione.
Il silenzio, che per definizione è quello che non può essere detto, che non può essere espresso, è necessario alla vita umana e bisogna riscoprirlo per ritrovare la propria identità e vocazione.
Abbiamo il dovere di scoprire i mille volti del silenzio che abbiamo se vogliamo conoscere veramente cosa si nasconde dietro la maschera che indossiamo.
L’immagine di copertina è Le moulin de la Galette, opera del 1906 di Kees van Dongen