L’uscita di questo volume di Urania, tutto dedicato per la prima volta ad un autore italiano, segna uno spartiacque nella carriera di Dario Tonani. Chiariamo meglio. Con le precedenti opere ci si muoveva in ambienti più fantascientifici. Si è parlato spesso di una narrativa intimistica – crepuscolare. Chi arrivasse da questo Tonani a la blade runner resterebbe, credo, abbastanza sconcertato nell’affrontare questo nuovo ciclo. Abbandonate le cupe atmosfere metropolitane ci troviamo di fronte a tutta un’altra cosmogonia. Dal soggetto si passa all’epico. Da una narrazione incentrata sui personaggi ad una prospettiva dall’alto, opposta alla precedente. Dall’inconscio alla narrazione esterna oggettiva. Qui il protagonista non è il personaggio di cui, solitamente, si fa una analisi psicologica. Il vero centro del romanzo è il paesaggio. E una maniera se vogliamo anti-moderna, che riporta in campo l’epica, appunto, e punta ad una visione poetica del narrato. Quando parlerò dello stile della scrittura ne riparleremo.
Il paesaggio, dicevamo. Dunque, l’autore riesce in un’operazione creativa che, solitamente, è appannaggio degli scrittori mainstream. Rendere vivo, palpabile, e non solo uno sfondo, anche se magari realistico, lo spirito di un mondo, di un modo di viverci, completamente sconosciuto a noi lettori. Il deserto di Tonani è l’artefice che penetra ogni poro della pelle dei protagonisti, ogni lamiera delle macchine che lo percorrono, e ogni paesaggio urbano che vi si crea. Tutto è il deserto in questo splendido omaggio alla poetica di Ballard. E ognuno, uomo, macchina, o mutante che sia, ne porta dentro a sua volta il suo essere. Ovvio anche il richiamo al Dune di Herbert. Rispetto ai due maestri il nostro però sposta l’asticella verso l’alto. Nel lento svolgersi del paesaggio davanti ai nostri occhi non c’è azione a guidarci. Ma solo l’asciuttezza sintetica, quasi astratta direi, del deserto. Per certi aspetti mi riporta alla mente il lavoro di sintesi fatto dal grande Francesco Biamonti. Le rocce, il vento, la sabbia, gli strani animali futuristici, questi sono i protagonisti. E le macchine. Questa invenzione che Tonani ci ha regalato per la nostra gioia. Rielaborando il concetto delle macchine meccaniche dello Steampunk, e trasportandolo su questo mondo alieno inventato, l’autore compie un’operazione geniale. Ma non è solo la decontestualizzazione a fare effetto. Spesso allo Steampunk è stata rimproverato la leggerezza scherzosa dei toni. L’autore compie uno scarto dall’originale: le macchine (o navi) su ruote formano un altro mondo dentro il mondo. Un oscuro labirinto fatto di meccanismi meccanici di ogni tipo. Il più delle volte sono delle trappole per chi vi entra. O per chi le usa. Non mi addentrerò troppo nel dettaglio del loro funzionamento, che meriterebbe un saggio a parte. Esse sono organismi metà macchina metà umane. Senzienti in un certo modo, guidate da umani morti, incastonati al loro interno. Il loro carburante è costituito da altri corpi umani morti. Sono in guerra tra di loro, non sappiamo da quanto. Niente dati storici a distrarci. Una di esse, la Robredo, e il suo comandante, diventano una specie di leggenda che sentiamo in sottofondo.
Ci si ferma in alcuni punti ad ammirare le descrizioni che Tonani fa anche dell’esterno di queste vere e proprie città mobili. Le ruote giganti sono veramente da rileggere !!! Che dire poi della bella invenzione del misterioso morbo che trasforma tutto e tutti in metallo? Da essa deriva l’idea dei mechardionici, ex esseri umani di cui rimane solo il cuore in corpi di acciaio. Alcuni dei brani più belli del libro sono poi quelli dove vediamo personaggi fugaci persi nella loro misera vita degradata, in mezzo a cimiteri immensi di macchine in rovina. E questo ci da il la per agganciarci al tipo di tecnica usato per la gestione dei personaggi. Il lettore resterà forse deluso. Come manca l’azione così, volutamente, mancano le loro analisi psicologiche. Essi appaiono, poi restano assenti a lungo, per poi ritornare in altri punti, o uscire di scena all’improvviso. Visti sempre dall’esterno, senza darci modo di immedesimarci con loro, se non forse a fine romanzo. A volte occupano solo un intermezzo e non li rivedremo più. E una tecnica presa dal modo epico che si può far risalire fino al ciclo di Vance della Terra morente (che a sua volta introietta, ovviamente, Tolstoj). E richiede un lettore colto e attento, non legato a colpi di scena e effetti emotivi di pancia.
A rendere poi ostica la lettura in alcuni tratti c’è la struttura su cui tutto è costruito. Spesso Tonani si concentra su una singola scena e la dilata. La circonda direi, dal punto di vista di più personaggi. Ma quello che mi ha ancor più piacevolmente stupito è l’eliminazione di qualsiasi segnale divisorio tra le prospettive. In un flusso ininterrotto di linguaggio si ha quasi la sensazione di leggere un’opera di taglio sperimentale. Nessun segnale ci avverte quando stiamo assistendo alle vicende dell’uno o dell’altro personaggio. Sta al lettore ingaggiare una lotta nel tentativo di ricomporre il tutto. Sia per questo argomento che per lo stile potremo dedicarci magari in futuro con più cura.
Anche a livello stilistico, infatti, la disamina richiederebbe esempi dettagliati. Il linguaggio di Tonani fa di tutto per aderire alla materia, alla sabbia, ai meccanismi che descrive. In alcuni tratti particolarmente riusciti si può dire che il vero protagonista è il linguaggio stesso, la sua essenza materica. Si parla in questi casi di espressionismo astratto. Le parole in questo caso smettono di avere un valore di contenuto e assumono un’importanza di forma, di materia. Come se la lingua diventasse tridimensionale e noi potessimo sentirla non solo con uno ma con i cinque sensi. Di solito la fantascienza, come tutti i generi commerciali, non si concentra molto sul linguaggio in se stesso. Casi isolati sono gli autori che fanno avanguardia sui generi come Delany o Moorcock. Fa piacere vedere un autore nostrano avere tanto coraggio.
Collana Millemondi n 72 Urania
Fantascienza
Mondadori
378