Appena qualche settimana fa, durante un’intervista a Repubblica, Patti Smith, sacerdotessa del rock, ha espresso questo pensiero riguardo la morte: ti libera dalle barriere dell’infermità, dissipa rancori e incomprensioni, ci permette di recuperare un rapporto migliore con chi non c’è più […] è un concetto astratto. Nel silenzio e nella solitudine riusciamo a sentire le persone che abbiamo amato.
Infine, dichiara di aver sviluppato questo pensiero leggendo un verso di un poeta, che ha trascritto su un pezzo di carta che porta sempre con sé da più di quarant’anni…
Ci si accorge, tra l’altro, della preziosità di tali pensieri nel momento in cui si scosta di un po’ il giornale di là, si riprende in gestione la propria giornata ma poi, ecco, proprio a pochi centimetri dall’ultimo punto focale giace un libro, all’apparenza candido, tra il nome dell’autore e il titolo, lievemente percettibili, nel bianco della copertina, compaiono degli svolazzi delicati, quasi un particolare ornamento di un angolo di una camera da letto, oppure, aspetta…partono questi ultimi da due angoli simmetrici, lasciando uno vuoto al centro, come se, dopo essere stati un tutt’uno, si fossero all’improvviso separati da uno strappo via via sempre più vistoso.
Le stanze dell’addio (Bompiani) di Yari Selvetella non può essere considerato soltanto un romanzo: l’eleganza, tra lo struggimento e la costernazione nelle parole, con picchi di rassegnazione e poi bagliori di speranzosi monologhi interiori, il tutto fanno di esso un’incredibile opera d’arte.
La tristezza di una perdita incolmabile, come punto principale della storia, è un tornaconto delle memorie custodite nelle recondite passioni ovattate dai clangori di un episodio struggente, verificatosi già da tempo, tutto questo riportato negli scritti, più che di un romanzo, di una lunga lettera intrisa di sentimenti profondissimi, una confessione di un animo solitario, nel silenzio delle sue azioni, come nelle grida delle sue parole.
Gli ultimi istanti di vita di una donna vengono vissuti e rivissuti dal suo consorte, che ancora non si dà pace, o forse sì, rimembrando, nel ricordo di lei, percorrendo tutti i giorni le stesse stanze, gli stessi corridoi e mimando e imitando le stesse abitudini, ricostruendole secondo svolgimenti d’azioni che rimandino indietro, con la forza di un pensiero richiamato, costruito, la donna che ha perso.
La possenza del tempo trascorso, e di quello che verrà.
Il tempo […] si è nascosto in qualche sicurissima tana e da lì si ciba e mi esplora, affonda i suoi denti aguzzi, mi scuote col suo guizzo di serpente, o giace acquattato nel buio […] poi con le forze accumulate nei riposi, colpisce.
In quelle stanze d’ospedale, nelle abitudini che si sarebbero svolte ancora innumerevoli volte, nella riuscita alla battaglia che avrebbe potuto salvare lei, che invece è andata via troppo presto (arrivata troppo tardi, aggiungono i medici), nei tre anni e più che seguono l’addio, l’uomo riporta in vita colei che è stata strappata all’esistenza terrena ancora in giovane età, portata via con violenza dalla pace di una famiglia, l’affetto dei tre figli, l’amore per i libri, una brillante e ambiziosa carriera letteraria, il mestiere di editor, la riuscita di una continuazione alle abitudini di un’esistenza costellata di passioni.
La punta di un iceberg è ciò che resta di un uomo, alla semplice apparenza distrutto dal dolore, ma risanato nella ricostruzione di eventi e storie che facciano riacquistare ciò che sembra perso, invece sommerso dalla distesa marina, immergendosi a sua volta negli abissi, da dove, poco dopo ricompare stringendo un pugno di ricordi, un’abitudine di lei, una conversazione, una lettura, una vacanza, esperienze perdute, riproposte nei flashback, episodi al contrario che restano giù, dove al posto del buio degli abissi, esiste per lui la luce del passato.
Uno stream of consciousness, pensieri febbrili che si ripetono, attraverso il ricordo ossessivo della morte, ma non una necrofilia à la Lovecraft, bensì un richiamo alla vita, un riproporre a nuova esistenza nei meandri della memoria, una rivisitazione de La chambre verte di Truffaut, dove scene analoghe si ripetono, prendono il sopravvento i racconti di Henry James, un uomo, la sua donna, le sue lotte, l’amore che ritornerà per lanciargli un appiglio, risollevandolo dalla massa scura, forse dalla pazzia, invano, chissà.
Raccogliere parvenze di nostalgia tradotte in verità, ecco a cosa si assiste nella lettura di quest’opera di narrativa.
Riavvolgere le capacità affettive nelle abitudini passate, anche quelle ultime, dolorose, ma che diano ancora una possibilità per un cenno di chi non c’è più; riportare in vita con la forza dell’immaginazione, con il ripercorrere stanze, sfiorando le ombre di chi ci passa accanto con i suoi pensieri, nell’analogia della narrazione dell’ uomo che nell’arrendevolezza dell’evidenza non si arrende, dove la guerra combattuta con stremo, persa già dall’inizio, con l’evidenza del male, da semplice ufficiale inerme di fronte all’ ingiustizia di chi lo sta affrontando con un’arma troppo grande, tutto troppo ingiusto.
La Always crashing in the same car di David Bowie, sembrerebbe, ossia sbattere sempre contro lo stesso ostacolo e non superarlo, o semplicemente con le forze fisiche e di pensiero, sbattergli contro ripetutamente e ossessivamente con la speranza di frantumarlo, di abbatterlo, o ancor meglio, infierire contro l’ostacolo oltre cui esiste una qualsiasi forma di inventiva, restando al di qua nella scelta arbitraria dei ricordi, dove vive ancora lei; ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un fil di ferro o a una paura mai vinta, inchiodata per sempre.
Non resta che vivere, superare, amare, andare avanti.
Il capodoglio che compare nell’ultimo capitolo, dove nella trascrizione di una lettera di chi quell’uomo lo incontrava tutti i giorni in ospedale, così come noi, che abbiamo ascoltato la sua storia; l’animale marino che emerge, nel buio, dalla superficie calma del mare, che simboleggia la ricomparsa di ciò che resta al di sotto, il cui saluto di una pinna caudale ci indica il ritorno alla luce, al rigenero d’aria, al respiro di una nuova epoca personale.
Le parole di Emily Dickinson abbraccerebbero Yari Selvetella:
Dopo un grande dolore, i sensi solenni s’atteggiano / come tombe i nervi siedono cerimoniosi / il cuore, irrigidito si chiede: fui io a sopportare / e fu ieri, o secoli addietro? / […] / Questa è l’ora di piombo/ che ricorda chi sopravvive / come gli assiderati, la neve / Dapprima una sensazione di freddo / poi lo stupore / infine la resa.
Dal suo canto, invece, Patti Smith ringrazia e saluta il giornalista, ritorna alla sua vita, anch’essa, come tante, costellata di lutti, e nella penombra delle sue stanze dell’addio al consorte che non è più, riprende quel foglietto che ha conservato per troppo tempo in tasca, e che da troppo tempo minaccia di sgretolarsi, come il dissolversi dei pensieri nel vento impetuoso che fu.
E’ una frase di Pasolini: non è vero che i morti non parlano, siamo noi che abbiamo dimenticato come ascoltare.
Letteratura italiana
Bompiani
2018
160