Impetuoso, cupo, teso come un nervo scoperto. Questo Lo stupore della notte è un libro che non si riesce a chiudere fino a che non si è arrivati alla fine. Con la sua ultima fatica, Piergiorgio Pulixi conferma, e supera credo, le aspettative di chi ha amato i suoi precedenti libri, consegnando 360 pagine di scrittura serrata, precisa, più vera del vero. Un rutilante susseguirsi di parole che mescolano sapientemente realtà, documentazione e finzione letteraria. Al punto che diventa davvero difficile, se non impossibile, capire dove finiscano le prime e dove cominci l’ultima. “In guerra la prima vittima è la verità”, scrive quasi alla fine Pulixi, riprendendo non solo una frase di Eschilo ma, in un certo senso, consegnandoci la chiave di lettura di tutto il libro.
In una Milano raccontata con una precisione fotografica eppure mai fredda, protagonista e personaggio del libro proprio come gli uomini e le donne che entrano nella storia, ci ritroviamo catapultati in un’atmosfera che potrebbe essere quella delle banlieu parigine o della fredda e grigia periferia belga. Milano qui è davvero una metropoli multiculturale e globalizzata, ma dal crimine e non dalla cultura. In questo scenario riconoscibilissimo eppure simile a quello di altre capitali europee, si dipana una storia di violenze, di terrorismo, di ‘ndrangheta in cui non è più possibile capire cosa sia vero e cosa non lo sia. Nessuno e niente è ciò che sembra e la dissimulazione diviene l’unica cosa certa.
Rosa Lopez, poliziotta che al suo mestiere ha sacrificato tutta la sua vita, è a capo dell’Unità Speciale Antiterrorismo dopo una lunga esperienza in terra di Calabria. Qui i suoi occhi e il suo cuore si sono induriti e votati alla spasmodica ricerca di giustizia (e vendetta) dopo la morte dell’uomo che amava, poliziotto anche lui. A Milano sta accadendo qualcosa, qualcosa di grosso: cellule isolate di giovani musulmani radicalizzati si stanno preparando per un attentato che vuole spazzare via centinaia di “cani infedeli”. E attorno a ciò si intrecciano, come in tante scatole cinesi, episodi e disegni molto più grandi di quanto si possa immaginare. Spionaggio, controspionaggio, connivenze, violenze efferate, per dipingere una storia da cui nessuno esce pulito. I metodi per arrivare alla verità (ma quale verità) non sono poi così diversi da quelli utilizzati da qualunque tipo di terrorismo e da qualunque tipo di guerra. C’è un legame intricato tra criminalità organizzata, terrorismo jihaddistico, CIA e agenzie di intelligence varie. Un groviglio in cui gli interessi geopolitici si mescolano a dolori privati che dei primi diventano lo strumento più facilmente manipolabile. E a guadagnarci, tra gli altri, i fabbricanti d’armi tra cui gli italiani non sono secondi a nessuno
Piergiorgio Pulixi, allievo di Massimo Carlotto (qui evocato anche dall’idea del titolo che riprende una canzone, un po’ come Niente più niente al mondo o Arrivederci amore ciao di Carlotto stesso) ha da lui preso la maestria nel “trattare” i dialoghi e le descrizioni che, seppur precise e dettagliate, non perdono mai di ritmo e di tensione. Ma anche la capacità di far riflettere su alcuni temi caldi e, proprio per questo, delicati. Come, in questo caso, la radicalizzazione e la “scelta” di molti giovani di abbracciare una via estrema in nome di un Islam che è solo un pretesto. Lo stesso Pulixi, in una bella intervista rilasciata a Simone Gambacorta sul quotidiano La Città, disse:” […]Al di là del puro intrattenimento, che pure deve esserci, perché sono romanzi che devono far evadere le persone, se riesco a far riflettere su alcuni temi legati alla cronaca, magari anche attraverso storie scomode, sono soddisfatto.” E qui, di scomodo, c’è proprio tutto a partire dal personaggio di Rosa Lopez e alle modalità di azione di forze dell’ordine e agenti ombra. Pulixi ha rischiato grosso scrivendo di un argomento tanto sensibile e facendolo con una tale dovizia di particolari, denunciando senza denunciare apertamente ma “solo” con una capacità di raccontare che è già, essa stessa, denuncia: cosa si è disposti a fare pur di arrivare a farla pagare ad un assassino? Cosa si è disposti a calpestare per di illudersi di pareggiare i conti? E, metafora tragica e infera, ecco nel libro il famigerato Lovers Hotel, un po’ Garage Olimpo di dittatoriale argentina memoria, un po’ Guantanamo, luogo sotterraneo nel vero senso della parola, ufficialmente inesistente, usato fin dalla Seconda Guerra Mondiale, come luogo di tortura, tra corridoi male illuminati, arredamenti Art Deco e urla e confessioni che si perdono nel buio di una versione di comodo che, appunto, non è mai la verità.
Un libro potente, che si legge d’un fiato e che resta impigliato nella memoria anche quando lo si è concluso. Forse per la “vicinanza” dei temi trattati, forse per alcune descrizioni che rimandano a scene tante volte viste in tv ma, più probabilmente proprio per quel sapore di verosimile che aiuta non solo a rendere credibile la storia ma anche a far passare molto più di quanto la storia stessa dica.
Ne parliamo con lo stesso Pulixi a cui abbiamo fatto alcune domande
La scelta di scrivere di argomenti così vicini nel tempo era rischiosa, per le implicazioni anche emotive che poteva comportare. Da dove è nata la voglia di scrivere proprio di terrorismo, attentati ed estremismo islamico?
Da una domanda ben precisa: al di là dell’eccellente lavoro di prevenzione e intelligence delle nostre forze dell’ordine e degli apparati di Sicurezza – che sono tra i migliori al mondo, con una lunga tradizione di lotta al terrorismo -, c’è qualche altro motivo per cui l’Italia è uno dei pochissimi paesi europei in cui non si sono verificati attentati di stampo jihadista? Magari qualche motivazione legata alla criminalità organizzata italiana? Questa è stata la domanda drammaturgica: da lì in poi si è innestata l’idea di creare un thriller che forzasse le barriere di genere, e ho cercato di costruire una serrata caccia all’uomo in una Milano ipermoderna. Il romanzo rimane ancorato al genere poliziesco, perché è una poliziotta a indagare, e la sua è una corsa contro il tempo e contro una mente criminale imprendibile, raffinata e sempre due passi avanti rispetto agli inquirenti. Ritmo mozzafiato, suspense e scorrevolezza, sono elementi che ho affinato fino alla fine, perché in questo romanzo – e per il tipo di struttura narrativa che possiede – erano importantissimi.
Ciò che colpisce nel tuo libro è il grande equilibrio che riesci a mantenere rispetto ai vari personaggi. Non traspare alcun tipo di particolare empatia per nessuno di loro in particolare. Non deve essere facile per uno scrittore. Come sei riuscito a mantenere un tono quasi da cronaca?
Più che altro bisogna essere empatici con tutti i personaggi allo stesso modo, senza fare distinzioni. Quando scrivi, devi calarti profondamente nella psicologia di ogni personaggio, come se fossi lui/lei. La tridimensionalità psicologica è ciò a cui ogni autore dovrebbe ambire nel tratteggio dei suoi protagonisti. Questo è sicuramente un romanzo corale, con tantissimi personaggi; creare un equilibrio e dar voce a tutti non è stato facile, ma rappresentava una sfida e ho provato ad affrontarla al meglio. Essendo la cronaca la matrice narrativa in un certo senso della storia, ho cercato di adottare un linguaggio pulito, essenziale, scevro di troppi orbelli stilistici, sia per motivazioni legate al ritmo e al tempo di lettura, sia perché amo uno stile concreto, semplice, che metta in risalto azioni e sentimenti dei personaggi. È sbagliato pensare che non si possa raggiungere la profondità con uno stile semplice. Pensa a Simenon e agli anfratti psicologici che riesce a raggiungere con la sua scrittura essenziale.
Questo è un libro che lascia capire quanto lavoro e studio ci sia dietro. Come si costruisce, dal punto di vista della documentazione, un libro così accurato e complesso?
Bisogna dedicare tantissimo tempo a ogni aspetto della documentazione. Col tempo e con l’esperienza impari a crearti un metodo di lavoro che ti permetta di risparmiare il maggior tempo possibile. In questo caso, essendo il romanzo ambientato in una città ben precisa, Milano, al di là della documentazione sui vari temi che sono il cuore pulsante del romanzo, ho dovuto studiare e “vivere” Milano in ogni strada, in ogni quartiere, in ogni luogo che raccontavo; questo è stato ovviamente bellissimo e credo che sia stato un valore aggiunto del romanzo, ma è un’operazione che ha richiesto altro tempo. Ho dovuto conciliare lo studio con la scrittura, dedicando un anno intero a questo progetto in cui da subito ho creduto tantissimo.
In alcune pagine, in alcuni frammenti, ti addentri anche in una sorta di analisi sociale, soprattutto per quanto riguarda le “motivazioni” di chi aderisce alla jihad. E questo è un valore aggiunto del tuo libro. Pensi che susciterà qualche polemica?
Non credo. Sicuramente non è mai stata mia intenzione creare polemica, soprattutto su quel tipo di analisi; mi sono limitato a raccontare il reale, la realtà che vivono questi giovani, la condizione di insignificanza sociale e distacco verso due culture in cui non si sentono accettati, quella naturale e quella “adottiva”. Il quesito su cui vorrei che ci si interrogasse è un altro: Cosa sei disposto a sacrificare per la tua sicurezza? Quanta verità sei in grado di sostenere pur di sapere che sei al sicuro? Queste sono le vere domande che il romanzo dovrebbe suscitare; qual è il nostro rapporto con la paura e come ci rapportiamo alla “lotta al male”; Rosa, da un certo punto di vista, incarna questi interrogativi. È una donna che deve proteggere una città intera, con milioni di abitanti: può permettersi il lusso di tentennare davanti a certe scelte investigative o certi metodi di interrogatorio? Può sottilizzare o cadere preda di dilemmi morali? Se il lettore fosse al suo posto, come si comporterebbe? “Lo stupore della notte” oltre a essere un romanzo d’intrattenimento credo che sia soprattutto una riflessione sulla lotta contro l’oscurità che spesso risiede dentro di noi.
Domanda d’obbligo: perché creare un personaggio femminile come protagonista. Seppure, per molti aspetti, Rosa Lopez abbia quasi rinunciato alla sua femminilità…
Perché desideravo da tanto tempo creare un personaggio femminile che non avesse nulla da invidiare quanto a determinazione, forza e in un certo senso “cattiveria” rispetto ai colleghi maschili; Rosa Lopez è una cacciatrice, e finora nei miei romanzi avevo analizzato la psicologia di un “cacciatore” come Strega, mai di una “cacciatrice”. Questo mi ha permesso di sondare una sensibilità diversa e di mostrare il mondo della Polizia attraverso una prospettiva femminile. Ho preso come modello personaggi come Clarice Sterling, Lisbeth Salander, Petra Delicado e Grazia Negro di Carlo Lucarelli; ho studiato a fondo le loro psicologie e da lì ho creato la Lopez, una donna preparatissima, dura ma al tempo stesso fragile, scossa da un amore imbevuto di sensi di colpa che la rende una investigatrice senza requie.
Carlotto, tuo maestro, ha sicuramente cambiato il modo di scrivere “storie nere” almeno in Italia. Fermo restando che la tua è una voce molto unica, molto riconoscibile come tua, cosa ritieni di dovere agli insegnamenti di Carlotto, per quanto riguarda questo libro in particolare?
Massimo Carlotto non è solo un grandissimo autore ma anche un formidabile maestro. Sono tantissime le cose che mi ha insegnato. Per questo romanzo in particolare è stato molto utile uno dei suoi primi insegnamenti: “va’ ovunque la storia ti chieda di essere portata”. Che significa: non avere paura, non utilizzare alcun filtro nel racconto e soprattutto avere sempre il coraggio di osare, senza alcuna paura. Questa lezione è stata un mantra per me: ho lasciato l’Inghilterra e mi sono trasferito a Milano solo per dar seguito a questa storia, per “seguirla”. A prescindere da come andrà, posso confessarti di essere estremamente felice di aver seguito quel prezioso consiglio. Avvertivo la necessità di raccontare questa storia, e dovevo farlo ora, perché… devo fermarmi qui per non fare spoiler ai tuoi lettori.
Thriller, noir
Rizzoli
2018
359